Liberal n. 41/1999
Cara Mina,
valanghe di commenti si sono riversate sull’esito del processo a Giulio Andreotti. Come al solito una vicenda giudiziaria è stata l’occasione per analisi e considerazioni di tutt’altro genere: dalla rilettura della storia recente d’Italia, al rapporto magistratura-politica, al ruolo dei pentiti. In tutto questo bailamme solo lui, l’eterno Giulio, l’accusato e poi prosciolto, mi è sembrato, come suo solito, imperturbabile e capace di reggere ad una situazione che avrebbe fatto saltare i nervi a chiunque. Non sarà questo un altro segno della sua superiorità?
Vittorio G., Imola
Mi è tornata in mente la faccia di Edward J. Robinson nel film “Cincinnati kid”, quando, alla fine di una interminabile partita di poker, scopre il jack di quadri e vince la partita della vita. Non la sua, naturalmente, ma quella dell’antagonista, nell’occasione Steve McQueen. Era una vittoria normale, impegnativa, ma normale. Tanto scontata da non sconvolgere lo sguardo né da alterare la voce del vincitore.
E se invece del jack di quadri fosse apparso il due di picche? La faccia sarebbe stata la stessa, il controllo totale, lo sguardo impassibile. E, con la voce senza incrinature, avrebbe sibilato qualcosa di pesantissimo e argutamente ironico.
Il protagonista, il “comunque vincente”, ha percorso la passerella concessagli immediatamente dai media con l’aria tranquilla di chi, appunto, l’avrebbe percorsa comunque. Con la stessa nonchalance di sempre. Se non fosse stato per qualche concessione all’ironia a proposito della rottura di palle durata sei anni a raccogliere prove tanto scontate quanto ridicoli erano i teoremi da smontare, il suo parlare non avrebbe avuto nessuna inflessione. Un tranquillo discorrere senza altisonanza, con intelligenza, misura, cautela, sicurezza. Presente a quasi tutte le udienze dei processi, non si è mai colta in lui nessuna platealità, non ha mai sparso nessun veleno, e il suo dissenso rispetto ai castelli delle ipotesi accusatorie è stato fatto a mezza voce, come se chiedesse gentilmente ad un passeggero disattento di togliere la valigia dal posto libero.
Intorno a lui, ma senza sfiorarlo, il coro. Il solito inevitabile coro con le funzioni del coro, nella sua piena secondarietà. Al coro, che per sua natura ha il ruolo di contorno, non appartiene obbligatoriamente la lucidità e l’obiettività. Il coro reagisce, non agisce, e urla e sembra di sentirlo più forte solo perché è fatto da tante voci. Dentro il coro, indifferentemente dei favorevoli e dei contrari, tutti si sono sfogati con malizia o con rabbia o con furbizia a sostenere le teorie del partito preso, strumentalizzando a favore di una fazione, di una corrente, di una teoria, un fatto non propriamente strumentalizzabile. Così privato da non dover essere usato tanto brutalmente e così importante da non poter essere banalizzato. Screditamento o esaltazione delle Procure, inno o deplorazione dei giudici, messa in discussione dell’importanza della pentitocrazia, ridefinizioni dei termini “mafia” e “antimafia”, carro del vincitore da occupare indiscriminatamente, corteo dei vinti da giustificare storicamente.
Chissà quanto avrà considerato ridicolo tutto ciò il senatore Andreotti. Lui che non ha come caratteristica comportamentale quella di mischiare con gli altri la possibilità di responsabilità. Lui, con quegli occhi artificiali che emanano il sibilo assordante dell’intelligenza. Lui, con la sua faccina cinese da terminator, con la sua feroce attenzione da ventenne, con la serena coscienza di essere l’Italia, con l’aria tranquilla di chi sembrava essere l’unico a non aspettare disperatamente il responso del tribunale come personale riabilitazione o definitivo affossamento.
Forse si è cercato di distruggere un simbolo, il simbolo dell’Italia di questo dopoguerra. E con la tumulazione dell’eterno Giulio sarebbe stata consegnata all’oblio e al disprezzo la nostra storia recente.
Così non è stato. “Quello che è stato fatto alla mia famiglia in questi anni è qualcosa che non può essere detto con le parole. È stato un dolore continuo e incessante. Dovremmo avere diritto a qualche anno di vita in più”. Ha certamente ragione senatore, ma sono solo i comuni mortali che considerano la vita conteggiando il numero degli anni, non Lei.