Antonello Falqui – Intervista di Lele Cerri

Intervista di Lele Cerri
18.02.2002

Il Signor Senso Dello Spazio mi riceve in una casa che lo conferma tale, bell’e che pronta, com’è, per il grandangolo, per una delle sue riprese con azzeramenti della linea d’orizzonte, infinite lungimiranti fughe centrali, campi e controcampi con ritmi perfetti, ellissi e dettagli, carrellate sapienti e coinvolgenti, fluide: autentici tapis roulant per la curiosità dello spettatore, come soltanto quelle precorritrici dello zoom che sono state le sue carrellate del primo Studio Uno potevano essere. Naturalmente, il Signor Senso dello Spazio in questione è il signor Falqui, Antonello, figlio d’arte grazie a un padre prezioso e autorevole, quanto discreto, letterato. Antonello Falqui che, dopo un intermezzo teatrale del 1960 con Idillio villereccio di George Bernard Shaw con Franca Valeri e Vittorio Caprioli e Viaggio a Parigi di Massimo Dursi con Gianrico Tedeschi, Paolo Ferrari, Alberto Bonucci e Maria Grazia Francia (probabilmente fortemente suggeritogli da qualcuno, leggi circostanze, come un dovere verso il proprio lignaggio) ha poi ripreso a deliziare per anni il pubblico televisivo educandolo all’eleganza del proprio divertimento, al piacere di tutto ciò che ad un tratto, in seguito, gli è stato tolto. Se non era un lavoro altamente sociale quello…
Il Signor Falqui, adesso di fronte a me, rappresenta quindi l’Irripetibilità di qualcosa che abbiamo molto amato, noi allora fortunati presenti, spettatori graziati da quei momenti di “TV” che molti adesso reclamano in nome del proprio diritto ad avere, nel loro tempo, la loro parte di bellezza non goduta.

L.C. – Vogliamo parlarne, Antonello? Tutto questo è molto legato alla tua storia con Mina, una storia “destinata”, una storia inevitabile tra due inevitabili complici, direi. Cominciamo dall’inizio? Il vostro comune rapporto con l’immagine. Potresti descrivere l’arrivo di Mina attraverso una sua caratteristica fondamentale che individuasti subito?

A.F. – Quando uscì da dietro a quel juke-box, al Musichiere, mi fu subito chiaro che la sua musicalità era affiancata, corrispondeva pienamente, ad una sua grande forza di impatto visivo. Non c’era dubbio, quella ragazza veniva fuori, riempiva lo schermo impadronendosi della scena; e succedeva come un fatto naturale, “questo” era eccezionale.

L.C. – Sappiamo adesso che quel colpo di scena che fu la sua uscita al Musichiere, la possiamo considerare una promessa mantenuta.

A.F. – Mi fu così chiaro da subito che l’avrebbe mantenuta che poi, poco dopo, andai con Kramer a vederla a Milano in una specie di serata di beneficenza. E quando dopo il Musichiere facemmo, sempre con Kramer, Buone Vacanze, fu chiamata Mina; per un’ospitata, sì, ma fece una specie di duetto-sketch con questa sua “Nessuno” rivoluzionaria, con Wilma De Angelis che la cantava “melodica” come l’aveva cantata a Sanremo. Il bello di quello sketch fu che quando Mina, “urlatrice” d’assalto, si scambiò il ruolo con la De Angelis e fece la sua versione melodica di “Nessuno”, fu ancora più brava di quando aveva “urlato”. Fu subito la prediletta dei musicisti, Kramer, Canfora… Mi fu subito chiaro che il nostro lavoro assieme sarebbe stato fondato sulla perfetta sintonia musicale che – i fatti lo hanno dimostrato – c’era tra lei e me.
Basta pensare, in ogni puntata dei vostri spettacoli, alla quantità di “stacchi a tempo” in ogni canzone. Grazie alla nostra intesa abbiamo sempre potuto curarli in ogni pur minimo dettaglio, fin dall’inizio, per arrivare alle ultime collaborazioni. Anche una semplice entrata come quella sua a metà di Milleluci, quella per la sua fantasia musicale centrale, per il suo pezzo cantato, era un risultato eccezionale di musicalità affiancate: Mina era accompagnata in scena da uno stacco musicale per un’entrata a passi, a secondi, a riprese incrociate con un incrociarsi tra lei e le camere piazzate in quinta di proscenio. Ci voleva il suo senso scenico e la nostra intesa musicale per renderle fino a quel punto, delle entrate così, per riuscire a costruire delle figure così coreografiche semplicemente sottolineando, con i passi, gli accenti musicali.

L.C. – C’era qualche trucco?

A.F. – Senza false modestie devo dire che quella nostra intesa io la comunicavo anche alle telecamere. C’era un famoso primo cameraman, eccezionale, Antro, che ancora oggi mi telefona, ogni tanto, che era diventato, musicalmente, quasi una nostra estensione. Quindi aveva una sua speciale sensibilità… Perché i “carrelli” vanno fatti con una certa sensibilità, sennò è finita…

L.C. – Quindi anche “stati di grazia” in una puntata più che in un’altra…

A.F. – Sempre però tendendo a mantenere lo standard che ti ha caratterizzato, che hai sempre garantito, che ti appartiene. Poi, si capisce, ci sono sfumature, condizioni particolari. Ma garantire il livello costante è il lavoro basilare. Poi c’è un aspetto tecnico, tecnologico, come per il secondo Studio Uno, quello del ’65. In questo Teatro delle Vittorie, allora, siccome avevo sguarnito ogni scenografia, c’era un aspetto, appunto, tecnico, tecnologico, nella visione scenografica. Perché avevo tolto tutto, e c’erano solo tralicci e strutture, perciò era diventato enorme. E quindi le “passeggiate”, cosiddette, di Mina, erano lunghe, molto lunghe, perché c’era da attraversare trenta, quaranta metri di palcoscenico. E lei, quell’enorme spazio scenico lo riempiva una quantità di volte a canzone. Era una meraviglia quel rapporto inesauribile tra lei e lo spazio. Adesso, mettendoci tutte quelle sovrastrutture che non so a cosa servano, sono riusciti a rimpiccolirlo di un terzo, il Delle Vittorie, ma allora era uno studio enorme.

L.C. – Scusami, ma lo Studio Uno del ’65, quello con le Kessler che scendono giù dalla graticciata, un po’ Lido di Parigi (che era una citazione, vero?), era al Delle Vittorie o allo Studio 1 di via Teulada?

A.F. – Diciamo pure quello dell’ “È l’uomo per me” di Mina con ospiti come Totò, Mastroianni, Gassmann e tutto il gotha dello spettacolo italiano e internazionale. Un “siparietto” fatto con calibri di quel genere.
Mina era incredibile. Catalizzava, faceva da perno senza invadere. Rendendosi disponibile rimaneva la grande padrona di casa, mettendo istintivamente a proprio agio l’ospite che riceveva e sentendosi lei stessa a perfetto agio. Magari con una risata, con un ammiccamento, riusciva a infondere simpatia per l’ospite e per sé. Quello Studio Uno del ’65 è stato fatto “e” allo Studio 1 “e” al Delle Vittorie. Sì l’entrata delle Kessler era una citazione, certo, loro erano arrivate da là, dal Lido, quindi…. Poi, dallo Studio 1, dopo un po’ di tempo passammo al Delle Vittorie, ma i primissimi numeri li avevamo fatti lì, allo Studio 1. E per quanto riguarda i titoli, Studio 1, Teatro 10… quei numeri non erano altro che i numeri dei teatri televisivi. Nella scala televisiva, nella mappa televisiva, il Delle Vittorie era il Teatro 10: da lì ricavammo il nome dello spettacolo, come dallo Studio 1 di via Teulada.

L.C. – Torniamo allo Studio Uno 1961, vostro primo grosso spettacolo assieme, con Mina protagonista. Una diretta che più diretta non si poteva… Mina aveva alle spalle “ben” due anni di esperienza e… “ed ecco a voi… Mina!”, e Mina arrivava e cantava in quel momento lì, proprio quello in cui la vedevamo noi, tra raffiche di stacchi a tempo, carrellate come piani sequenza interminabili, mitragliate di campi e controcampi. Insomma, protagonista del leggendario sabato sera, sotto gli occhi di tutta Italia, con cambi d’abito quasi tra una canzone e un’altra cantata dal vivo… Un po’ da cardiopalma, no?

A.F. – Sì, ma fin da subito non le fu più difficile di tanto, credo. Sempre per quel fatto che, come dici tu, i tempi di evoluzione di Mina sono incredibili, perciò dalla ragazza di Cremona alla star televisiva, il passo, in ordine di tempo, fu breve. In Studio Uno del ’61 lei arrivava al volo in mezzo all’orchestra a cantare: la annunciavano e lei usciva dalla quinta che si era appena cambiata d’abito. Perché allo Studio 1, la porta d’uscita dello Studio, quella laterale, aveva un camerino di fronte, costruito apposta perché andavamo in diretta. E lì la sarta Rina la aspettava per i cambi veloci tra un numero e l’altro. Invece, dove non c’era il camerino di palcoscenico, come al Delle Vittorie, si costruiva un camerino “posticcio”, fatto apposta, dietro le quinte, altrimenti…

L.C. – Il bello della diretta; si può ben dire che lo conoscete bene.

A.F. – E Mina, sempre per la rapidità che la distingue, con la diretta non ha mai avuto problemi, fin dall’inizio. Sì, siamo andati sempre in diretta. Tranne che per Canzonissima ’68. Quella con quei balletti straordinari, con lei dentro che cantava. Sì, anche per altri spettacoli con “inserti”, numeri speciali montati, avevamo del registrato, era inevitabile. Canzonissima ’68, poi, con tutti quei balletti che erano delle vere e proprie commedie musicali all’interno dello spettacolo… dei mini-colossal. Per cambiare vestito ogni accento musicale, si faceva la canzone quattro o cinque volte con tutti i vestiti e poi si faceva il montaggio musicale. Con prove per ogni stacco, per ogni registrazione. Quelli non erano balletti, erano delle videoriviste, ci volevano tre giorni per farne uno: ogni trenta secondi cambiavano scene e costumi; e non lavoravamo certo con i mezzi tecnici di adesso. Pensa che quando sono entrato io in televisione non c’era neanche lo zoom; gli avvicinamenti erano fatti col carrello, non so se ti rendi conto.

L.C. – Quanti obiettivi avevate al primo Studio 1?

A.F. – Quattro. C’era il grandangolare che dava quegli studioni enormi e poi c’era un obiettivo di primo piano, che era un teleobiettivo, praticamente; e, in mezzo, altri due. Però non c’era la possibilità di fare l’avvicinamento in altro modo che col carrello. Poi c’è stato tutto.

L.C. – Tu però avevi già trovato soluzioni, con un abbassamento di una camera, con una camera “sdraiata”, si potrebbe dire.

A.F. – Avevo messo una camera su un go-kart, una specie di lucertola ambulante, quasi a terra. E poi un’altra camera, che faceva un totale completamente in controcampo, con la vedette di spalle e tutto il pubblico di faccia, che era una cosa per allora impensabile. Naturalmente questa camera non andava in onda più di tre quattro volte a trasmissione. Tant’è vero che secondo la dirigenza tecnica era una camera inutile. Mi dicevano “mah, per tre inquadrature…”. Beh, eppure, con Mina, con questi mezzi facevamo delle fantasie musicali lunghissime, tutte in piani sequenza fatti sul carrello. Tutto un concertato di spostamenti da un punto all’altro punto, con il raccordo con l’accento musicale ancora in un altro punto. Anche per quelli che tu hai chiamato “i suoi momenti musicali” i suoi medley, a volte si facevano anche l’una, le due di notte per montarne uno, perché erano pieni di stacchi a tempo.

L.C. – Faticoso, eh? Che cos’era una vostra settimana di lavoro? Ma non è celebre per la pigrizia, Mina? E la sua resa scenica?

A.F. – Una cosa pazzesca. Non c’erano tempi morti. Sì, Mina poteva essere pigra nel decidere di fare qualcosa. Ma quando aveva deciso di farlo, quando arrivava in studio, era una stacanovista spaventosa, come me. Lavoravamo come matti, senza orari. Per non rubare alle prove nessun giorno della settimana, avevo addirittura spostato alla domenica le riunioni di studio della troupe, quelle in cui si decidevano le idee e il piano di lavorazione della puntata successiva. Avevamo giornate di lavoro che cominciavano al mattino e finivano a notte fonda. Allora lo si poteva fare. E noi, lei per prima, non ci tiravamo certo indietro. Lei era una grande lavoratrice, una grande compagna di lavoro. Non ha mai obiettato su niente, su nessuna mia scelta, su niente che le venisse impartito. Non ha mai detto una volta “vorrei…”. Mi lasciava fare. Però io la lasciavo totalmente libera, nei movimenti; la lasciavo muoversi come voleva. Sì, i famosi movimenti di Mina. A volte, per volere certe inquadrature la costringevo in posizioni non naturali, per una che sta cantando. Ma lei ci arrivava puntualmente… E in più “sentiva la telecamera”: si girava al punto giusto, sapeva che c’era quello stacco…

L.C. – Amoreggiava con la telecamera.

A.F. – Sì, amoreggiava con la telecamera. Naturalmente avevamo provato molto, prima; cosa che adesso non si fa più. Stacchi a tempo sugli arrangiamenti musicali e sui tagli di luce ad hoc di Bartoloni. E i risultati sono quelli che ancora oggi si possono vedere. E in più, con la sua sensibilità musicale, con quella sua memoria musicale pazzesca…: bastava sentisse una canzone una volta e la ricantava e così faceva con le posizioni per la camera quando provavamo e giravamo.

L.C. – Ma qualche impuntatura?

A.F. – Mai. Certo, se qualche volta, in qualche scenetta, aveva delle battute, su cinque righe ne tagliava tre. Non certo per pigrizia ma per intuito. E alla fine era chiaro che aveva ragione lei. Anche in questo aveva un istinto incredibile, pazzesco, un talento naturale per quello che faceva, il talento della superstar. Lei sapeva benissimo cosa poteva dire e non dire, quale frase le stesse bene addosso da pronunciare e quale no. E le capivo anch’io, naturalmente, queste sue scelte. Perciò come lei seguiva le mie io seguivo le sue.
In certi periodi, per scelte tecniche “aziendali” ci fu la propensione a far cantare in play-back. Per tutelare la qualità della riproduzione del suono, dicevano. A Mina non piaceva, anzi, le dispiaceva molto. Oltretutto anche adesso, se con la coda dell’occhio le capita di vedere uno di quegli spezzoni non li trova “autentici”.
Certo, lei è una cantante, e voleva cantare, dal vivo, è naturale. Ma quanto a riprese, a immagine, a impatto, la sua resa, tra vivo e play-back non cambiava, non calava. Se cantando dal vivo aveva più grinta “reale”, in play-back, riusciva a costruire delle magie visive che a me risolvevano comunque. E sempre con il solito risultato del “buona la prima”, sempre magie visive, in play back o dal vivo che fossero. Sì, ne abbiamo girate un bel po’ di quelle magie. Pensa alla naturalezza della sigla finale di Milleluci, “Non gioco più”, con Mina che, cantando dal vivo, interpretava il testo anche con la propria gestualità, con occhiate trasversali o dirette, lontane, con un semplice roteare le punte delle dita, tirando boccate di fumo a leggera “sottolineatura”; e accompagnata da Toots Thielemans! Fu un colpo da copertina, quell’accoppiata. E pensiamo all’altra accoppiata Mina-Astor Piazzolla, così agevolata da Mina stessa che pur di averlo gli fece lei stessa una specie di supplemento di contratto. Fu la prima a scoprirlo in Italia, con molto anticipo su altri.

L.C. – Ricordi “privati” che hai di Mina.

A.F. – Sono sempre ricordi “pubblici”, alla fine. La sua paura della folla, ad esempio, il suo disagio ad essere toccata, palpata passando, come è avvenuto per anni, durante le serate nei locali. Ricordo il suo imbarazzo ad essere “invocata” mentre entrava alla Bussola tra due ali di folla, tipo ultràs: erano disagi autentici. Anche in Televisione le capitava di provare veri disagi di quel tipo. A Studio Uno, non so se ti ricordi, al Delle Vittorie, c’era quella rampa che partiva dallo studio e saliva in galleria, e c’era un mare di gente ai lati, saranno state 800, 900 persone, e lei, anche se non si vedeva assolutamente, aveva disagio a percorrerla, perché c’era sempre qualcuno che a un tratto si sporgeva dalla poltrona per avvicinarlese un po’, per sfiorarla mentre lei era impegnata ad andare su e giù cantando.

L.C. – Un rimpianto, in tutti quegli anni di collaborazione?

A.F. – Anche adesso, se è per questo: quello di non aver fatto con lei “La vedova allegra”. Ho provato a convincerla in tutte le maniere, ma non c’è stato verso… Sempre per quella sua ritrosia a interpretare qualcosa… “Io non posso fare un personaggio, la vedova allegra è un personaggio” mi ha sempre risposto, “io posso fare soltanto me stessa”. Aveva questo senso d’autocritica pazzesco, scatenato. È sempre stata la più impietosa critica di se stessa. E io sono tornato tante volte all’attacco, considerando poi che “La vedova allegra” è al novanta per cento “cantata”! Mah, peccato. È per quell’eterna vecchia convinzione per la quale si tagliava le battute che le erano assegnate, te l’ho detto… Forse anche per “La vedova allegra” aveva ragione lei… ma non ne sono persuaso; e non essere riuscito a convincerla è comunque un grosso rimpianto.

L.C. – Però puoi consolarti col fatto che con lei hai fatto Milleluci.

A.F. – Milleluci era una grossa trasmissione, sì, una grossa trasmissione. Ecco, l’unica volta in cui abbiamo discusso un po’ è stato proprio per Milleluci. Perché io volevo che facesse una macchietta di un soldatino balbuziente.

L.C. – Che poi ha fatto, nella puntata dedicata al cabaret.

A.F. – Che poi ha fatto, sì. Era una macchietta del primo Novecento, e il punto era che lei era tornata di colpo su quel fatto che non era un’attrice, ma una cantante, e che quindi non avrebbe saputo interpretare una macchietta, ma tutt’al più cantare in un certo modo o in un altro, ma non mimare o recitare una cosa. Poi l’ha fatta, cantando, dopo un po’ di braccio di ferro, benissimo. È stata la sola, l’unica volta in cui abbiamo avuto da discutere un po’ su un punto. Tra me e Mina c’è sempre stata un’affinità pazzesca. E questo si vede, credo, anche.

L.C. – Mina e l’eterno “avrebbe potuto fare, avrebbe potuto essere…”.

A.F. – Mina “è” una grandissima cantante. Più che grandissima direi una “fuoriclasse”; e anche uno dei più grandi protagonisti della storia dello spettacolo. Aveva paura dell’aereo, era pigra, non voleva lasciare l’Italia… si è detto di tutto. Ma che quello che ha fatto l’abbia fatto soltanto in Italia, non significa che non sia una grande figura internazionale. La sua classe e il suo livello lo hanno sempre detto chiaro, che lo è. E quello che ha fatto, la straordinarietà di quello che abbiamo fatto insieme, è irripetibile. O ripetibile soltanto da lei, con lei.

 

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