Bruno Canfora – Intervista di Lele Cerri

Intervista di Lele Cerri
24.07.2002 

E al nome di Bruno Canfora, in tutti noi che abbiamo ascoltato Mina passeggiare fluidamente su quelle famose “consuete fantasie musicali” annunciate da Paolo Panelli in Canzonissima 1968, non può che risvegliarsi un senso di gratitudine per il suo averci dato l’opportunità di crescere spettatori del bello, di quel piacere musicale che abbiamo potuto goderci in diretta in quei preziosi irrinunciabili sabato sera.
La voce del Maestro Canfora mi raggiunge a Firenze, per chiedermi di ritardare di un’ora il nostro incontro. Decido al volo di sfruttare quell’ora per arrivare da lui concedendomi una deviazione, attraverso la bellezza della campagna senese e quella umbra, sulla Cassia, per le provinciali, tra le morbidezze di quei poggi, godendomi quel paesaggio che probabilmente ha fatto da modello per i panneggi ai pittori rinascimentali.
Abituato al bello, arrivato alla conquista della totale libertà di scelta, il Maestro Canfora non poteva che scegliere un habitat così. Penso che nei miei quarant’anni di vita con Mina, il Maestro Canfora non l’ho mai incontrato. E so anche che fa un po’ soggezione.
Ecco, giù per la piccola discesa a sinistra di quel dosso, il cancello. Tra le foglie oltre l’inferriata intravedo in giardino la signora Canfora che con un clic mi fa entrare in quel loro angolo privato all’interno di quel paradiso terrestre e, scambiatoci un mini riassunto delle nostre vite con i nostri relativi inseparabili cani, mi accompagna dal Maestro. Che – il destino! – mi accoglie sullo sfondo di un quadro che prima di ogni altra parola mi fa esclamare “Ma quello è Tonino!”. E davanti a quel paesaggio collinare ad olio popolato da una selva di cappelli e cappellini a mo’ di piante come in un divertissement botanico-surrealista-settecentesco si apre la nostra conversazione.

B.C.  – Sì, è un quadro di Tonino. E, vede, c’è anche un buco. Piccolo, ma c’è. Sa, coi traslochi c’è da aspettarsi di tutto, anche i buchi nei quadri. Ma per non toglierlo di casa non lo mando nemmeno a restaurare.

L.C. – Beh, potrebbe essere lo stemma della Ditta Amurri-Canfora.

B.C. – Grande, Tonino. Aveva una scioltezza, scriveva morbido, tutto quello che scriveva scivolava… vedi “Conversazione”. Sapeva scrivere sugli accenti musicali come pochi.

L.C. – Mina ne sa qualcosa. Quanti pezzi “vostri” ha cantato?

B.C. – Non ne ho idea. Credo molti, davvero una quantità, ma il numero non lo so.

L.C. – Molti sono stati sigle di grande successo, degli Studio Uno 65-66, e tutti sono stati a lungo ai primissimi posti delle classifiche. Uno, poi, è uno dei miei brani preferiti tra quelli sceltissimi che mi porterei dietro su un’isola deserta: “Né come né perché”. È un pezzo di teatro bellissimo, sembra il brano di un musical, una romanza moderna, largo, di gran respiro. Tempo fa, con Mina, in macchina, lo abbiamo cantato per una mezz’ oretta di viaggio cercando di ricordare tutte le parole.

B.C. – Eh… avere Mina che cantava i tuoi pezzi era un regalo del cielo. Per quanto li cantava bene, intendo dire. Però non stavamo lì a preoccuparci di sapere a quale posto in classifica stessero.

L.C. – Credo che andassero tutti molto bene.

B.C. – Ma a noi importava poter fare al meglio il nostro lavoro, riuscire a fare quello che volevamo. E avere Mina che lo siglava era la sicurezza conclusiva oltre che la tranquillità fin dall’inizio. Poi non eravamo tanto fiscali da controllare le posizioni in classifica. Avevamo tanto di quel da fare, tanta di quella musica da scrivere, che per i controlli, no, non avevamo davvero il tempo. Certo che… …destinato, com’ era, a Mina, poi, che il nostro lavoro avesse successo era, potrei dire, garantito. Sa, “Né come né perché” è anche il pezzo preferito di mia moglie; ed è in realtà un brano di una commedia musicale, di una “Addio giovinezza” per la quale Tonino fece le canzoni. Mia moglie dice che è il più bello di tutti quelli che ho scritto.

L.C. – Maestro, come ex adolescente nell’epoca dei propri furori musicali, come ex ragazzetto in quella mia età della musica non-stop che furono gli Anni 60, le sono molto grato perché lei ha contribuito, con Mina, a fornirmi di un repertorio di qualità, di quella buona musica alla quale, assieme ai miei coetanei, sono cresciuto e dalla quale, in un certo senso, sono stato educato sentimentalmente. E le confesso di averla molto invidiata per averla vista accanto a Mina in quel Sanremo 61 che di Mina mi chiarì definitivamente la grandezza completa.

B.C. – Lo ripeto, avere incontrato Mina è stato il più bel regalo che mi potesse essere fatto. Non riesco a pensare ad un eguale sviluppo del mio lavoro senza di lei. Mi ha dato la possibilità di scrivere e di arrangiare come desideravo. Per scrivere ed arrangiare come un musicista vorrebbe poter fare, c’è bisogno dei mezzi. Quelli personali, certo… ma poi, se non ci fosse stata Mina a reggere tutto, a permettere di realizzarlo reggendolo con le sue capacità, totali, complete, la sua musicalità, la sua voce, la sua intonazione, la sua innovazione nel dividere. Mina esalta quello che scrivi, lo rende fisico, reale, tangibile. Mina esemplifica perfettamente quello che tu intendevi ottenere scrivendo. Può farlo. Ha tutto quel che necessita per farlo.
Cominciando dal capirlo al volo al primo ascolto.

L.C. – Eh sì. E lei l’aveva lì davanti, a Sanremo.

B.C. – Bellissima, grande, importante anche da piccola. Autorevole. L’avevo già incontrata prima, in uno spettacolo TV del pomeriggio di Sacerdote-Falqui. Guido ed Antonello mi dissero che l’avrebbero avuta ospite e mi chiesero di prepararle qualcosa. Io le buttai giù un arrangiamento per orchestra di A foggy day (in London Town). Fu una meraviglia ascoltarla. Fu un’impressione che io mi sono trasportato da allora fino a oggi. Sempre. Ho sempre questo suono di questa “A foggy day” fatta da lei a mezza voce, con la voce appoggiata bene, con dei concetti evidentemente abbastanza simili ai miei di arrangiatore. Come abbia fatto, allora, a cantare così non si saprà mai. Natura. Natura pura. Non aveva mai preso una lezione di canto, non aveva lunga esperienza, e sapeva come dare sfumature alla voce, o se non lo sapeva tecnicamente lo faceva per istinto. L’ importante era che gliene dava, eccome, e quali! Una ragazzina di diciannove anni di Cremona che capiva perfettamente di cosa un brano avesse bisogno. Capisce quando parlo di fortuna di averla incontrata?

L.C. – Sì. E vi ritrovaste a Sanremo 61.

B.C. – Sì, Mina con me cantò “Le mille bolle blu”. Un pezzo impossibile. Intendo dire bellissimo e difficilissimo. Anche perché uno, a cantare quelle cose lì, può sentirsi anche un po’ scemo… Ci pensa, lei, trovarsi davanti “bblll, vedo turbinar le mille blu… blll”, con quell’andamento, e doverlo risolvere? Lei risolse tutto alla grande, nel miglior modo. Con la sua fortuna. Che è la fortuna di essere nata così: capace, brava… che dire brava non significa niente. Perché Mina non è brava. È oltre, non c’è niente da fare. E definirla in termini di bravura e capacità è limitarla in un ruolo che lei oltrepassa naturalmente. Con “naturalmente”, intendo dire con le sole incredibili capacità naturali con le quali è nata. Gh’è nient de fa’. Perciò, averla a fianco, in un certo senso elemento e complice del tuo lavoro, significava sapere che potevi fare tutto quello che desideravi realizzare. Ripeto, la parola brava, per Mina, è qualcosa che non corrisponde. C’è dell’altro.
Si possono ascoltare di seguito cinque CD di Mina senza mai stancarsi, stupendosi, sorprendendoci nel continuare a trovare nuove sorprese, nuove invenzioni pezzo dopo pezzo.
Qualsiasi cosa canti. La più bella canzone o la più piccola sciocchezza. Non sarà merito suo, magari, per carità – perché non si può, non si possono avere capacità così grandi, umanamente parlando – sarà un dono divino, ma è così: ce l’ha.

L.C. – Lei, Maestro, è stato un testimone diretto delle sue invenzioni, della sua ricerca della vocalità cominciata prestissimo e sfociata nei “tanto azzurro intorno a me non vidi muaiiiii, non vidi muaaaiii…” di “Io amo tu ami”
e in tutti i “con meeiii” “da teeiii” e gli ”e sei doumaneiiii”successivi.

B.C. – Sì, era ricerca. Perché lei sapeva bene cosa voleva. O anche se non lo sapeva intuiva che doveva volerlo, sicuramente, perché la sua natura musicale la comandava alla ricerca di tutti i mezzi e risultati che col tempo avrebbe affinato e irrobustito. Già dicendo molto, sono certo che sapesse che aveva ancora molto di più da dire, un linguaggio vastissimo da completare, da integrare dando libero sfogo al proprio talento. Un talento così grande che io l’ho sempre pregata, se mai ce ne fosse stato bisogno, di seguire sempre e soltanto se stessa, di non prestare mai orecchio alle mode, di non preoccuparsene o valutarle mai troppo; perché qualsiasi moda o qualsiasi grande esempio di una certa moda si fosse presentato, grande che fosse, in tutta la sua carriera avrebbe tutt’al più potuto produrre e significare solo un venti per cento di quello che ha prodotto e che significa Mina; che Mina “è”.

L.C. – Sentirle dire tutto questo mi piace smisuratamente; perciò, sfoggio una certa “beozia”, facciamo che sono un po’ imbecille ed ho bisogno che lei estenda.

B.C. – Mina è una presenza musicale di importanza fondamentale. Quanti altri lo sono? Ma non solo. Mina è autorevole come presenza: entra in una stanza e di tutti i presenti, tanti che possano essere, non c’è più nessun altro che lei. Ha idea cosa fosse, in quegli anni, lavorare con una persona di quella bellezza? E guardi che oltre alla bellezza fisica, intendo dire la bellezza di come si muoveva, di come guardava, di come “entrava”, dei gesti coi quali sottolineava il tempo o il senso di quello che cantava, il suo riempire lo spazio. Siamo tutti stati innamorati di Mina per quello che rappresentava, tutti. Nessuno riusciva a non subire questo fascino incredibile. A parte la bellezza, ripeto, il suo modo di girarsi, di muoversi… la sua timidezza nonostante la sua naturale autorità… Ed è stato un crescendo. E pensare che tutto questo credo di non averglielo mai detto. Non mi piaceva farlo.

L.C. – Maestro, proprio a lei, che ha scritto per Mina una specie di inno con quel titolo, non piaceva dirle “brava”.

B.C. – Figuriamoci! Nemmeno Mina mi ha mai fatto un complimento.

L.C. – Perché, cos’è? Non sta bene, tra collaboratori?

B.C. – So che potrebbe sembrare una sorta di snobismo, ma non è quello.

L.C. – Timidezza?

B.C. – Chiamiamola “ritrosia”. Ad esempio, quando presentammo il brano, lei lo annunciò come un brano che stranamente si chiamava “Brava”, visto che era di “quel signore lì davanti all’orchestra” (io) “che brava non glielo aveva mai detto nemmeno una volta”. Vede come siamo fatti? Io ho lavorato a “Brava” con la totale coscienza che l’avrebbe cantata Mina. Guardi che Brava è un pezzo molto difficile, anche se non sembra. E non tanto per l’estensione, perché si sapeva già che anche lì Mina non ha problemi di sorta. Ma ancora più fenomenale è quanto lei riesca ad essere intonata e limpida a quella velocità. La sua capacità di scandire a quel ritmo quella raffica di sillabe-note così serrate. È qualcosa che le ha permesso soltanto la sua natura, la sua macchina canora, il suo impianto fisico di natura mentale: che almeno in musica, a quanto io sappia, appartiene soltanto a lei. Si figuri che, per come io stesso ritenevo difficile cantare un brano strutturato a quel modo, scrissi personalmente le parole, anche se non sono paroliere, per trovare le sillabe più adatte a renderlo cantabile, a costo di mettere una parola sbagliata, ma per rendere il testo il più fluido possibile, farlo scivolare, tenerlo sotto controllo e non frapporre altri ostacoli, inciampi. Ci hanno provato altri, pur bravi, a cantare “Brava”, ma il risultato è un altro. Alcuni, poi, sono ricorsi a soluzioni come quelle di mettere sotto – nell’arrangiamento, voglio dire – il finimondo orchestrale per distrarre dal fatto che la velocità era molto ridotta rispetto alla versione di Mina.

L.C. – Il trucco sta qui: a quel ritmo, a quella velocità, la nitidezza, l’intonazione, la precisione e l’espressività può reggerle soltanto lei. E dando un totale senso di libertà. Lei si è divertito spesso, con Mina, in specie di sfide musicali… il “Minute Waltz”, ad esempio.

B.C. – Sì. Non ricordo se prima o dopo che avevamo fatto “Brava”, lavorammo al “Valzer di un minuto” di Chopin. Le parole gliele mise Tonino Amurri. Anche quello una cosa impressionante di velocità e agilità. E lei andava via liscia come l’olio, precisa, perfettamente intonata, a suo agio e senza fatica come su un tapis roulant, su pattini a rotelle, alla velocità originale del pezzo come era stato scritto. Eh, beh, io sono diventato esigente, dopo. Non mi va più bene niente. Dopo di lei… io… che avevo cominciato ritenendo un miracolo che lei cantasse un pezzo mio, sentendomi come un fan entusiasta che ascoltava questa donna cantare in questo modo meraviglioso senza rendermi conto che il pezzo era mio… E poi, che squadra. Con Mina che sapeva perfettamente cosa si doveva fare e che perfettamente allineata dava un senso ad ogni scelta e decisione che prendessimo per lo spettacolo. Falqui che sapeva altrettanto perfettamente cosa voleva ottenere e te lo faceva capire benissimo, chiaramente, nella maniera giusta, per cui, nonostante la sua aria musona, da “muflone”, era un piacere stare ed avere a che fare con lui, godere della sicurezza riflessa della sua competenza da raffinato della musica, del costume, del particolare, della veduta d’insieme, del controllo totale dello spettacolo. Una squadra incredibile.

L.C. – Un velo di rammarico?

B.C. – Per il fatto che molti che sono arrivati ai quadri organizzativi non siano all’altezza del loro lavoro. Che non ci siano più talenti di scopritori capaci di scoprire autentici grossi talenti artistici. Mi mancano le nascite dei geni. Mi addolora che si penalizzi il pubblico per la sua capacità di “subire” – che è una grossissima capacità! una specie di grande specializzazione del pubblico! – affibbiandogli prodotti di facile consumo invece di premiarlo per questa sua capacità dandogli il meglio. Sarebbe loro dovere, dovere dei dirigenti, dico, continuare a scovare ed offrire qualche genio oltre ai tanti tecnici, ai tanti generici, oltre ai soliti “bravissimi” e no. Mi dispiace che non succeda.

L.C. – È legittimo per chi ha fatto parte di una televisione che ha insegnato agli italiani l’italiano e il gusto di molte cose che fino a poco prima erano state appannaggio di pochi privilegiati. La vostra era innovazione, un’operazione d’avanguardia, eravate l’avanguardia che traduceva la qualità fino allora riservata alle élites in una qualità per la massa. Mica poco! E aver lavorato in spettacoli come Studio Uno e Canzonissima ’68, poi… così straripanti di tutto quel ben di Dio che era il frutto di lavoro e lavoro e lavoro…

B.C. – Sì, la quantità di lavoro incredibile, per fortuna! Proprio come ci piaceva. Era normale per ottenere quello che volevamo. E c’erano le possibilità per ottenerlo. Mina imparava il pezzo al primo passaggio e al secondo era già suo, perciò potevo presto passare ai coreografi: che erano tipi come Hermes Pan, coreografo di Fred Astaire, mica per niente, che in due e due quattro decideva di mettere su la coreografia di un particolare balletto che gli era venuto in mente allora allora per il quale mi chiedeva le musiche e dopo due giorni era tutto fatto, a suon di straordinari fino alle quattro del mattino che invece che una gran faticata ci sembravano un regalo divino. Lo facevamo tutti, questo. All’infuori dei bidoni, a parte le mezze calze, chi voleva fare questo mestiere doveva farlo così. Le nostre posizioni professionali e i nostri contratti erano difesi unicamente da ciò che sapevamo fare. Nessuno di noi aveva capacità manageriali. Quando cominciai a lavorare ero un ragazzo cresciuto ascoltando la musica di Rossini, che è un genio, non un grande soltanto, ma un genio assoluto (e ritengo importante distinguere il genio dal grandissimo tecnico ogni sciente) e poi degli altri grandi e meno grandi classici, e anche di Jimmy Dorsey , “Jimmy”, badi bene, non Tommy, e di Artie Shaw, Basie, Ellington, Jimmy Lunceford. In tempo di fascismo quelli erano dischi proibiti, introvabili, ma noi riuscivamo ad averli lo stesso, e alle nostre festine si ballava con quella musica, che oltre ad essere di rottura era, per nostra fortuna, una valanga di musica: musica, Musica. Quando giovanissimo mi ritrovai a dover affrontare le burocrazie Rai, delle quali, però, facevano parte elementi in grado di intuire, lo feci con un arrangiamento di “Le tue mani”, di Spotti, per quartetto classico di fiati, flauto, oboe, clarinetto e fagotto, che sicuramente risentiva della varietà di quelle mie frequentazioni musicali, e che sugli ostacoli, sulla concorrenza e sulle difficoltà contrattuali fece l’effetto di una palla da biliardo sui birilli. Ecco quali erano i miei manager e le mie pubbliche relazioni… Mina è stata subito regina per le sue doti! E se ha saputo non sbagliare mosse o far fronte a tutto, districarsi nei migliori dei modi, è perché dispone di un’intelligenza tale che automaticamente le impone una visione panoramica della situazione, qualunque possa essere, e le permette di sostenerla, fronteggiarla. E la definiscono pigra! Reggeva dei ritmi e dei turni! Certo, la sua memoria la aiutava. Anche musicalmente, certo. “Brava” gliela feci sentire un giorno al piano,; al terzo passaggio mi disse “Uffa, ancora? Ma quante volte me la vuoi far sentire?”. Tre mesi dopo, a settembre, venne e la cantò di filato con le parole già mandate a memoria sulla musica che ricordava. E ha presente di come “Brava” sia tutta irregolare? Per questo, sapere che lavoravi per lei ti scatenava la fantasia, la libertà.

L.C. – Un incentivo incredibile.

B.C. – Lavoravi pensando “qui posso fare come mi pare, tanto problemi non ce ne saranno, posso scrivere quello che voglio, lei può fare tutto”. Con lei come destinazione, ho potuto scrivere delle “Opening” come si possono scrivere solamente per voci ed espressività musicali eccezionali. Brani come “E sono ancora qui”, “Sono qui per voi”. Lei è un miracolo. Non deve essere la numero uno un talento così?

L.C. – Qualche spigolo? La prego…

B.C. – Come collaborazione, intende? Mai. Mina si fidava. Non mi ha mai detto fai così invece che cosà, non mi ha mai chiesto di cambiare niente. Tanto le riusciva fare tutto. Ma non me l’ha mai chiesto nemmeno per una semplice questione di gusto. E tutti sappiamo che è perfettamente in grado di esprimere e chiedere tutte le modifiche che vuole… Ma non mi ha mai chiesto una modifica. Abbiamo fatto dei dischi bellissimi con dentro brani come “Ma l’amore no”, “E se ghe penso”, “Munasterio ‘e Santa Chiara” con orchestre magnifiche e lei… e allora uno se ne approfitta del fatto che ci sia lei… E così si sente libero di scrivere “Mi sei scoppiato dentro al cuore”… tanto, per cantarla, c’è lei, che ha nella voce qualcosa che non ho mai trovato nella voce di nessun’ altra.

L.C. – Insomma, un’icona. Ma la vogliamo affrontare da un’altra angolazione questa ragazza di provincia?
Anche nel suo lato provinciale, che lei credo abbia conservato gelosamente accanto a quell’enorme mezzo comunicativo che è la sua straordinaria geniale follia universale, c’è uno dei suoi migliori aspetti, e cioè quello di chi osa. Il provinciale osa, ha il coraggio di osare, si butta. Forse la sua capacità di andare oltre, la sua “incautezza” tipica delle grandi, è stata sostenuta proprio da quella forza provinciale, da quell’affetto cremonese che lei ha sempre cullato dentro di sé.

L.C. – Come si fa a far cantare a una ragazza di Cremona un pezzo giapponese?

B.C. – Beh, se è per questo, Mina ha cantato anche in turco. Per il giapponese, il merito è forse, più che mio, di una persona di una classe eccezionale, il più grande produttore cinematografico giapponese, Kawakita, produttore di film come “I sette samurai”, “Rashomon”, “L’arpa birmana” che aveva prodotto un film di Mina. E che una volta arrivati in Giappone per una serie di recital piano e voce per promuovere il film in serate in club e teatri giapponesi, mi chiese di scrivere per Mina un brano originale in giapponese. Per scrivere il brano mi fu data una stanza isolata con pianoforte a coda e, come voleva il galateo nazionale, una persona che mi tenesse compagnia per tutto il tempo che avessi impiegato a scriverlo. Così fu accompagnata da me una signorina molto carina che mi fu presentata come figlia del Primo Ministro del Giappone che in mio omaggio stette seduta in un angolo, in silenzio assoluto, per qualche ora, finché “Anata to watashi” non fu finita. Dopodiché ci siamo ritrovati in giro per un vero e proprio giardino delle meraviglie senza fine, anche se Mina avrebbe preferito essere a casa su uno dei suoi amati divani o a girarsene in macchina al crepuscolo per la sua pianura padana nei dintorni di Cremona e lungo il Po. Accompagnati da personaggi come Toshiro Mifune e altri del genere abbiamo girato il Giappone in locali che anticipavano un po’ l’incredibilità dello stadio degli ultimi mondiali. In uno di quei posti di cui Kawakita era proprietario, un club enorme, favoloso, l’Anabashi Club, con lampadari di Murano grandi come case, c’era un palcoscenico smisurato con un boccascena di un centinaio di metri da fare paura ed un sipario dal quale, una volta aperto, oltre al pianoforte appariva una parete di vetro con dietro una enorme cascata d’acqua della quale non si sentiva il minimo rumore. Andammo al piano. Mina aveva al collo una lunghissima collana di perle da mille e una notte che Kawakita le aveva regalato assieme ad una spilla da capogiro per ringraziarla di avere accettato l’invito di quella sera e che, girandosi verso di me mentre cantava, le rimase impigliata in uno spigolo del coperchio del pianoforte; la collana si strappò e le perle rotolarono dappertutto, giù dagli scalini del palcoscenico, con Mina con un’espressione tra il divertito e l’“oh, pù!…” dei bambini piccoli. A fine recital, Kawakita, con un impercettibile cenno della mano, scatenó duecento valletti e il giorno dopo Mina riebbe intatta la sua collana di perle: tutte. Questo il contorno di “Anata to watashi”.

L.C. – Maestro, è un dispiacere doversi accomiatare da lei. L’oretta prevista per questa intervista è diventata tre ore nelle quali abbiamo anche aperto molti incisi, anche personali, dei quali le sono molto grato, sul suo geniale e musicale padre dal quale sembrerebbe aver tratto il suo talento di musicista; e ringraziarla e congedarsi sia pure a malincuore si impone se non altro come fatto di pura educazione e misura. Vorrei però prima chiederle, come faccio sempre in conclusione, per la gioia di eventuali detrattori, un difetto che abbia trovato in Mina.

B.C. – Un difetto… sì, un difetto gliel’ho trovato, da subito, da quel primo “A foggy day” arrangiato da me che lei cantò: il difetto di Mina è che non ha mai dato la gioia di poterle insegnare qualcosa. Sapeva già tutto. Non si sa com’è, ma sapeva già, o capiva all’ istante che soluzione ci volesse prima che tu potessi dirglielo. Fu così da subito, con tutto, tutto. Torni a trovarmi, sono felice che Mina abbia amici così.

 

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