Liberal n. 34/1999
Stanno per iniziare i Mondiali di atletica e anche questa volta ci mancherai, ci mancherai moltissimo, grande Pietro. Tu sì che sei… grande grande grande…
Se non fosse per lo scorrere dell’età, che per te non è stato così inesorabile come per quasi tutti i tuoi colleghi, vorremmo ancora vederti in pista con la tua faccia trasfigurata dalla estrema concentrazione, con quel tuo guardare la pista come se fosse un nemico da sbriciolare. La tua sembrava una lotta con te stesso, più che contro il cronometro. E vincevi sempre, anche quando magari non arrivavi primo. Vincevi perché è così che si affrontano le cose, buttando il sangue e l’anima, con estrema severità. Spingendo il cuore fino al limite massimo della sopportazione per arrivare vicino all’impossibile.
Mi ricordo che Von Karajan diceva che lui cominciava le prove con l’orchestra dove gli altri finivano. Ecco, mi sembra che anche per te succedeva qualcosa di simile. Tu continuavi quando tutti gli altri mollavano per stanchezza, o magari per noia. Tu lavoravi sul dolore, ed è così che, prima ancora di annientare i tuoi avversari sulla pista, li demolivi con il timore reverenziale che si doveva ad uno che non aveva paura di distruggere il suo fisico in allenamento, per ricostruirlo in gara, da vincitore.
Hai insegnato a tutti a lavorare sodo, rivoluzionando tutte le logiche della meccanica motoria. Sì, perché ad un qualsiasi ragazzo che avesse avuto un fisico come il tuo non sarebbe stato permesso di scendere in pista nemmeno per una gara provinciale. Quello che madre natura non ti aveva dato in termini di bicipiti o di adduttori te lo sei conquistato lavorando come solo tu sapevi fare. Contro tutto, contro il cronometro e contro i giornalisti, contro le ombre pesanti dei velocisti neri e contro la potenza leggera di Valery Borzov, che sembrava un angelo disegnato apposta per volare sulle piste. Ce le ricordiamo ancora quelle sfide, apparentemente impossibili, con gente del calibro di Lattany, Quarrie, Black, Crawford. E soprattutto quei due centesimi di vantaggio su Alan Wells, sulla pista olimpica di Mosca, quando all’inizio del rettilineo solo un pazzo avrebbe scommesso sulla tua vittoria. Ecco, in questo tuo volere combattere fino all’ultimo contro tutto e contro tutti, ci hai insegnato che cosa è un uomo. E in un’epoca di smarrimento e di logica rinunciataria, come quella in cui ci è dato di vivere, avremmo tutti bisogno di questo insegnamento.
Per questo mi piacerebbe che invece di lavorare in uno studio legale e commerciale, come vedo dalla tua carta intestata, tu girassi nelle scuole italiane a spiegare ai giovani che cosa voglia dire lottare, impegnarsi, credere negli obiettivi. I nostri ragazzi non hanno bisogno di miti da incorniciare o da stampare sulle t-shirt, ma di gente come te, che ha saputo affermarsi lavorando sul proprio limite. E forse capirebbero anche che lo sport, quello vero, è questo lavoro su di sé, in una continua ricerca di miglioramento. Prendila come una proposta seria, anche se magari già lo fai.
Sono felice di sapere che nei tuoi momenti di allenamento e di riposo sentivi le mie canzoncine. Anch’io conservo una videocassetta con i tuoi successi e con le tue gare più belle. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che fra qualche settimana ricorderemo i vent’anni del tuo strabiliante primato del mondo, stabilito alle Universiadi di Città del Messico, nel settembre del 1979. In questi anni, tutte le volte che vedevo correre un 200 metri, soprattutto in competizioni internazionali, trattenevo il respiro fino a quando non ero certa che il tempo del vincitore fosse stato superiore al tuo. Ora il record non è più nelle tue mani. Ma la cassetta la tirerò fuori ugualmente e la rivedrò. Perché così si corre solo in Paradiso.