
Di Marinella Venegoni – La Stampa
24.03.2020
È diventato molto difficile scrivere di Mina. Questo compleanno così rotondo e fatidico degli 80 che cade oggi, è stato già consumato da fiumi di parole, orde di filmati, immagini stranote. Ogni cosa sembra già detta. Il prematuro ritiro nel 1978 – una clausura anti-mediatica – l’ha resa per sempre giovane. Ci siamo persi la sua evoluzione umana ed è rimasta quella artistica. Nessuno di coloro che scrivono o parlano oggi in tv e radio e web di musica popolare l’ha mai vista né conosciuta. Dopo 42 anni, Mina viene obbligatoriamente tramandata come un’idea platonica che si materializza solo con l’immenso repertorio di 120 album: l’Italia più agée lo conosce a memoria, le uscite discografiche costituiscono il suo filo rosso teso al mondo, e proiettano lo spettacolo di una voce senza macchia e senza paura. Nessuno ne ha mai parlato male, nessuno lo farà. Non sappiamo se abbia difetti come tutti, nessuno ce lo dirà. Immobile nei suoi ottant’anni, nell’iperuranio destinato ai santini del nostro immaginario. Adesso un librone pesantissimo, interessante e lussuoso (in vendita per Rizzoli non appena si potrà tornare in libreria), intitolato semplicemente «Mina», rinnova la storia della figura pubblica di un lontano passato, attraverso la curatela ammirevole di Mauro Balletti, artista visuale che di lei si occupa dal 1973. Foto note, curiosità e fotomontaggi fantasiosi evocano una grandeur che non appartiene ai nostri tempi. In una impostazione assoluta, scrive Balletti: «Mina Picasso Maria Callas e Fellini hanno lo stesso sguardo. C’è un filo che li unisce, il filo della grande arte». Altrettanto significativi sono gli scritti. L’introduzione estatica di Rosario Fiorello, in cui confessa di provare «un sussulto, un brivido, un godimento vero, ogni volta che ricevo una sua telefonata o un messaggio che come un bambino gioioso ascolto e riascolto»; un racconto-analisi del grande Ivano Fossati, ultimo compagno artistico nel recente pregevole album intitolato con i loro due nomi, che si rifà al concetto di mito: «Si genera da gesta epiche, quando queste siano seguite dall’assenza prolungata di chi le ha compiute». Già. Ma le gesta qui continuano, malgrado l’assenza. Un bel calembour. Seguono colloqui d’annata con la Divina immateriale. Un Bocca ‘60 sul «Giorno», che premette: «Non sono intenditore ma questa voce mi piace. Calda, violenta, vera»; Luchino Visconti la incontra nel ‘62, il feeling tra due bei caratterini lombardi nasce con fatica in interminabili diatribe in cui la Diva ventiduenne tiene tenacemente la propria posizione. La più peperoncina è come sempre una Fallaci ‘63 sull’Europeo: «Noi ci siamo già incontrate signorina Mazzini… a Sanremo quando lei cantava una canzonetta dal titolo Io amo tu ami e sembrava perfino ignorare il significato di quel verbo che a ogni strillo le riempiva la bocca». Sarà stato lì che Mina ha cominciato a pensare di ritirarsi?