IL PAESE DEI BARABBA

Liberal n. 36/1999

Cara Mina,
per sfortuna di giornali e di televisioni, quest’estate non si è verificato il classico “giallo” che tenesse occupata l’attenzione di tutti i mass media. L’eclissi è svanita in un batter di ciglia, il terremoto in Turchia non può essere un “caso” televisivo e Clinton è tornato a fare il buon maritino fedele. Ma un parà si è schiantato a terra in una caserma. Su questo, reporter e giornali ci terranno occupati con nonnismi criminali e ipotesi di suicidio fino all’inizio dell’autunno. Il cinismo nella rappresentazione sconvolgerà, come sempre, la denuncia della verità.
Vincenzo T., Cesena

Non sappiamo più quale sia il confine fra l’accidentalità e la colpevolezza e ormai di certo c’è solo la morte. I cadaveri che rimangono insepolti e senza giustizia. I soprusi della verità che non ci fanno più nemmeno vergognare. Le lacrime di chi resta a cui nessuno darà mai risposta. In questa nazione, che è stata per secoli il faro della civiltà e che ora è diventata la barzelletta di se stessa, l’unica fortuna che ci si possa augurare è quella di morire in pace nel proprio letto. Ogni altra evenienza garantisce vicissitudini indegne di un paese civile.
Anche senza il giallo estivo, questa estate ci ha portato il suo drammatico carico di morte. La riduzione di tante vicende di gente in carne ed ossa a uno squallido copione per il teatrino massmediale ci fa sempre più perdere il senso del rispetto per chi è coinvolto. Ci si appassiona per il caso Marta Russo, si assiste alla morte di giovani boy scout travolte da un torrente in piena, si inorridisce per l’ennesimo stupro o assassinio, si elaborano ipotesi sulla fine di quel povero parà. Ma ciò che ci importa, in definitiva, è solo l’intrigo, la sceneggiatura, che deve essere più aggrovigliata di quella del miglior Hitchcock. Il finale non ce lo svelerà mai nessuno e alla maggior parte delle persone neppure interessa. La rabbia di un attimo si trasforma e cancella anche la nostra dignità.
D’altra parte politici, uomini di potere, giornalisti e giudici, ci hanno ben abituati a non arrivare mai al dunque. Si commettono reati e non c’è pena. Se c’è pena, non la si sconta. Se la stai scontando, c’è sempre qualcuno che ti rimette in libertà. E in questo meschino cerchio viene definitivamente annegata ogni speranza di redenzione per questo paese massacrato che ormai vive in uno stato di indifferenza narcotizzata, ma non per questo meno colpevole.
Mi piacerebbe proporre ai direttori dei giornali di riservare uno spazio, anche piccolo, in qualche pagina interna, per elencare i casi di cui non si è arrivati a capo e le vicende che ancora chiedono giustizia. Ma temo che, dopo qualche tempo, quel trafiletto diventerebbe così grande da togliere tutto lo spazio alle altre notizie.
Ci hanno costretti a non sapere mai la verità. Non dico quella su Piazza Fontana, su Ustica, su Bologna, su Moro, misteri irrisolti per antonomasia. Ma almeno la verità sulle “piccole” rapine, sul furto con scasso procurato al vicino di casa. E quando, invece, si sa chi è il responsabile, gli si consente di commettere altre nefandezze, magari con un braccialetto elettronico alla caviglia. E una volta ripreso il criminale, l’eventuale aumento di pena non gli negherebbe la possibilità di un’altra passeggiata per altre belle imprese. Che non pagherà mai, perché ha avuto la fortuna di nascere nel Paese dove solo le amnistie possono sancire la fine di qualsiasi vicenda giudiziaria e santificare così lo “status quo”. Anche i documenti scottanti sul terrorismo nostrano, conservati negli archivi dei servizi segreti, diventeranno carta da macero, per disposizione del governo, alla faccia della verità.
Siamo sempre allo stesso punto. Siamo allo stesso punto di quando Pasolini diceva di sapere chi fossero i responsabili dei massacri fisici e morali di quest’Italia, ma di non poterlo dire perché non aveva prove documentarie. Allo stesso punto di Barabba, lasciato impunito e libero al posto di Cristo. Allo stesso punto di Caino che ammazza e si nasconde.
Solo la rassegnazione sembra essere una via d’uscita. Oppure il silenzio. Oppure ricominciare da capo con le persone che ci sono vicine, nella responsabilità verso chi amiamo. Il cambiamento non verrà dalle anomalie diventate norma, ma da quella norma che si vorrebbe ridurre ad anomalia, e che si chiama responsabilità. E, forse, amore. Lasciando scorrere quel residuo di coscienza che è tutto quello che ci rimane.

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2 Settembre 1999

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