Di Gianni Clerici – Il Giorno
03.09.1966
Ci sono più segni di catrame che parole sul taccuino dell’incontro con Mina. Insieme abbiamo passato sei ore sul tetto dell’enorme hangar-officina di Fiumicino, una costruzione dell’architetto Morandi tutta appesa a enormi corde di cemento armato: Mina doveva girare dei caroselli, e Piero Gherardi, lo sceneggiatore degli ultimi film di Fellini, aveva scelto quel luogo astrale e più adatto a un film di Antonioni… Ecco che mi viene in mente, pensando a tante Vitti più o meno riuscite, che l’autentica tristezza, disperazione, ma educata, piena di pudore, è certo quella di una come Mina, e non di personaggi come la Grande Alienata. Durante l’incontro con Mina ho annotato proprio poco: e non perché i suoi impresari, Gigante padre e figlio, mi avessero diffidato a farlo. Era lei, Mina, così poco diva, così evidentemente scottata e maltrattata dalla sorte, che mi costringeva, in un certo modo, a non scrivere. Perché? Ma per rispetto, andiamo! Per vergogna di essere come quegli altri che le chiedono se si riconcilierà con l’uomo dal quale ha avuto un bambino, e anche il resto che tutti sanno benissimo, interessati come sono soprattutto ai Drammi e al Cuore, tanto che, una sera che passavo per un paese siciliano, mi è accaduto di sentire un cantastorie illustrare ai presenti proprio la vita della Mina: e anche se mancava l’omicidio e il bel processone finale richiesti dalle strutture di simili fumetti, gli animi degli spettatori vibravano. Bersagliata continuamente dagli scatti e dagli incitamenti del suo fotografo esclusivista Pascuttini, tormentata dai gentilissimi suggerimenti del suo impresario Gigante padre: che uno la vuole sorridente mentre l’altro la convince a partire subito per Napoli, dove la mattina dopo alle sette Gherardi avrebbe una splendida luce in cima a non so quale grattacielo sul golfo. E poi ci sono io: – Ma su, mi domandi qualche cosa, non stia qui solo a raccontami i fatti suoi, e insegnarmi le canzoni in dialetto. “Ma sono quelle vere – obietto io – mica quelle della mala”. Per solito, mi vergogno come un cane a cantare in pubblico, ma lì, per far ridere la Mina, per farla un po’ felice, sono contentissimo di diventare ridicolo. Per solito, non racconto mai i miei fatti alla gente: anzi, mi danno un fastidio marcio quelli che, dopo dieci minuti di conoscenza, aprono le chiuse e sommergono di storie interessanti solo per loro. Ma con la Mina è un disastro: stabilito il comune fondo etnico e linguistico, e che lei è quel tipo di lombarda che non ha bisogno di note illustrative in fondo alle mie frasi, io ci do dentro, a farla ridere, e dirle di tutto, dalle stravaccate alle prodezze della mia bambina. E perché dovrei intervistarla? Solo perché questo è il mio mestiere, il giornale mi paga per questo? Ma non sono mica un sicario, andiamo! Certo che, adesso a tavolino, sono qui a chiedermi. È sufficiente il rispetto per la privacy? Non sarà stato perché Mina è una bella donnona appetitosa, appena sfiorata dalla fatica e dalla maternità, da un troppo rapido dimagrimento e dalla pressione a 65, e io ho voluto fare la mia figura di esibizionista? Ma no, no! Non avete notato che, incontrando una persona sfortunata, dopo un momento si è lì, anche noi, a raccontare le nostre sventure, le nostre faccende? E magari, dopo i drammi più tristi, addirittura barzellette, roba di cattivissimo gusto, proprio perché non si vuole accettare la condizione di dolore dell’altro, la contaminazione… Esagero, forse. Ma non l’ho lasciata troppo parlare: mi ha detto due o tre no molto secchi, la Mina, e poi poche cose comuni, tra una carrellata e l’altra. Veniva da me, la Mina, e mi dava il braccio, si faceva una passeggiata lungo tutta la spina dorsale del tetto, sotto i tiranti metallici, guardando il mare a non più di un chilometro, con una gran voglia di nuotarci dentro. Quella ripeteva, non era nemmeno una brutta giornata, aveva, in fondo, dormito fin tardi, alle dieci, e, a parte il cerone che le si scioglieva in faccia e sulla schiena molto nuda, e il catrame che le invischiava i tacchi altissimi, a parte il sole e i moscerini, quasi si divertiva. Il bello sarebbe stato entro una decina di giorni, all’inizio delle Serate, come le chiamano i Giganti: uno spaventoso giro d’Italia di 45 giorni, cambiando ogni sera night arena balera stadio teatro. Vittima di un entusiasmo che non accenna a diminuire, da nove anni, da quando cantava a 30.000 a sera, e i suoi impresari attuali capirono che era già molto brava: ragazzina com’era, appena uscita dalla Beata Vergine e dagli stereotipi provinciali. Da allora, la cantante Mina è migliorata lavorando, cantando e ascoltandosi, senza mai studiare, fare esercizi. Ha imparato a ricordarsi, in tre ore, quattro canzoni turche, cantandole alla TV dinanzi agli esterrefatti maomettani: o a non stupirsi troppo vedendosi offrire, alla partenza dal Giappone, dieci collane di perle lunghe un metro: perle vere, naturalmente. Ma questi sono esotismi, li racconto proprio perché bisogna metterci anche un po’ di paillettes, in un mancato ritratto della Mina. Rimpianti, per la sua professione, ne ha uno solo: Mahagonny, che cantò la Laura Betti, alla Piccola Scala, e avrebbe dovuto essere suo, senza gli ostacoli delle Serate, i dischi, televisione e il resto. Tuttavia, sentendola cantare a voce altissima, nonostante l’incisione debba poi avvenire negli studi, viene il dubbio che Mina si sia sprecata per voglia di vivere e insieme per pigrizia, per entusiasmo e indifferenza. Ma com’è possibile, le domando, nascere in una certa società della provincia lombarda e – con quella voce – non desiderare di essere una cantante vera? E quindi l’Opera, quando si sia capito che l’Opera non è uno spettacolo da riderci dietro, ma una delle poche cose grandi del Paese? “Mi piacerebbe – risponde serissima – fare tutto Puccini. E – mi guarda per vedere se può dirlo – soprattutto la Mimì”. L’ho abbracciata: ho detto che il mio aereo partiva, e sono scappato, di fretta, verso l’aeroporto, vedendola lassù in cima, svolante nel suo vestito magico che cantava fortissimo tra i rombi dei jet, sciupava la sua bella voce per la reclame della pasta, faceva quella faccia da vamp mangiauomini e subito si rideva dietro come una ragazzina che si sia vista allo specchio in una parte non sua.