Liberal n. 42/1999
Cara Mina,
oltre alle morti e alle catastrofi causate dai terremoti, anche l’uomo collabora a questo scempio cosmico, con gli errori che si commettono nelle centrali nucleari. E così anche le fughe di uranio radioattivo completano l’opera di distruzione a cui stiamo sottoponendo il nostro pianeta. L’unica nota di speranza, però, è che l’uomo non ha perso la sua capacità di azione, anche gratuita, per risolvere situazioni impossibili. Mi riferisco proprio ai 18 tecnici che hanno rischiato la vita per bloccare la fuga radioattiva in Giappone. Secondo te sono dei pazzi o degli eroi?
Jacopo A., Modena
Il drago nucleare va domato con le mani nude. Il fatto è lì, davanti ai nostri occhi, con tutta la sua forza di provocazione.
Tutto doveva essere governato dai meccanismi automatici della tecnologia, in quella cattedrale del futuro eretta vicino a Tokyo. Ma il pericolo è sempre in agguato quando si manipola la materia. E quando l’evenienza imprevista e catastrofica si concretizza, dopo l’allarme e l’ansia si scatenano le ipotesi per attuare la strategia più efficace. Calcoli, stratagemmi, formule chimiche che non eliminano le incognite di un’impresa disperata. Il vulcano nucleare non guarda in faccia a nessuno. I robot o le strumentazioni artificiali non servono per vincere un duello impari. Ci vuole quell’elemento che corrisponde ancora al nome di Uomo.
Il drago nucleare va domato con le mani nude. Visto che la tecnologia non può rimediare a se stessa, si deve affrontare il mostro a viso aperto, con coraggio, senza arcangiolesca immunità.
Richiamati dal possibile massacro che proveniva da quel focolare radioattivo, si sono fatti avanti diciotto uomini che, con spontanea sregolatezza o per radicata convinzione, hanno risolto il problema con competenza, rivelando a se stessi e al mondo intero l’enormità e la grandezza della vita. Ed eccoli, allora, sacrificati per salvare i propri connazionali e, forse, il mondo intero. Non potevano non sapere. La memoria fisica delle contaminazioni di Hiroshima e Nagasaki non è stata mai cancellata dall’anima ferita del Giappone.
A metà strada tra una pagina da libro “Cuore” e il manuale del perfetto kamikaze, dal paese del Sol Levante ci arriva una storia che cataloghiamo tra gli edificanti episodi di un eroismo di cui, anacronisticamente, abbiamo sempre più bisogno. Davanti allo sgomento e alla delusione dei giapponesi, ma anche di fronte agli interrogativi di tutta la gente del mondo, i responsabili dell’industria nella quale si è prodotto l’incidente nucleare si inginocchiano e si inchinano. Provano a chiedere scusa e cercano di mettere fine, con un gesto antico, ad un imbarazzo moderno. Inviando quei diciotto “cristiani” samurai, i dirigenti della centrale hanno denunciato mancanze ed errori e hanno ripiegato le armi del progresso, riconoscendo il primato dello spirito sulla materia ed affermando la superiorità della persona rispetto alla tecnica.
È stato ancora una volta dimostrato, con un prezzo elevato, che c’è troppa sproporzione tra la capacità di fare e la capacità di controllare gli effetti della nostra azione. L’uomo si comporta ancora come un bambino sventato che osa i primi tentativi e si mette in pericolo. Altro che civiltà avanzata.
Continuiamo a gloriarci, proprio in questo secolo, del progresso tecnologico e giustifichiamo con l’alibi della necessità la continua ricerca in campo energetico e biologico. In realtà non è una necessità. Non basta dire che bisogna inventare nuovi modi per garantire almeno i bisogni alimentari a tutto il mondo. Balle. Demagogia. La ridistribuzione della ricchezza sarebbe la più avanzata tecnologia da applicare. Non è tollerabile che oggi, nel duemila, l’ottanta per cento della ricchezza del mondo sia in mano al venticinque per cento della popolazione della terra.
Sarebbe il caso di fare un passo indietro, riconoscere la propria ineluttabile limitatezza e rinunciare a tirare la corda dell’impossibile perfezione tecnologica. Bisogna dirlo, anche se si rischia il ridicolo, anche se si viene guardati con commiserazione; bisogna avere il coraggio di invocare uno stop, anche se sembra una capitolazione di fronte alla natura, anche se ciò rivela un malinconico desiderio di un passato che non c’è più.
Sarebbe proprio il caso di fare un passo indietro.