Di Sandro Bolchi – Corriere della Sera
23.08.1978
Roma – “Lo so, sono grassa, ma anche la Fitzgerald lo è. È colpa mia se in questo periodo alla colonia francese preferisco il brodo dagli occhi fondi? Non voglio volare, altrimenti noleggerei una mongolfiera che mi alzasse verso il cielo e se un aquilone dispettoso mi regalasse una pacca troppo forte con le ali scivolerei in mare, soffiando per i pesci la mia ultima canzone “Lady Mazzini”, che sorride mentre parla, si diverte a nascondersi in certe vecchie zimarre dove i chili possono ballare il tango senza essere visti o redarguiti, e dalle quali spunta una faccia sempre più solenne, generosa, vestita di bianco, abbronzata da una luna degli Anni Sessanta.
Adesso che l’estate si sta rintanando per lasciar spazio a stagioni più scalcinate e pelose, ci accorgiamo che Mina non è uscita dal baule che si è portata in vacanza, forse per non inciampare nei prosciutti o nelle crostate che lo invadono. Ci accusa di averla dimenticata. Oppure è lei che finge di scordarsi di noi perché ci immagina sazi di quella sua voce a forma di liana, dai sibili arcani che evocano i gemiti di un serpente, o il frusciare della freccia dentro la cerbottana.
Purtroppo sembra esaurita la smania quasi empia e forsennata di cantare dovunque; alla “Bussola” di Viareggio, come nelle strade, quando l’alba si fa esitante per paura che il sole la spalanchi con troppa furia; o in casa di amici, dopo una partita a poker, e si ha voglia del sapore di una certa nenia, da eseguire a bocca chiusa; o sulla spiaggia, per farvi innamorare di quelle note basse e nere, ancora calde di sabbia rappresa; o in un’arena davanti a migliaia di persone che hanno deciso di far notte con lei, pazienti come gli indiani quando accendono i fuochi davanti al fortino.
Per ascoltarla ci rimangono i dischi o il juke-box vicino ai quali la incontrai quando si faceva chiamare ancora Baby Gate. Molti anni fa, una notte, vicino a Novara, tra quelle strade intirizzite dalla brina e con l’erba fioca che razzola tra i sassi. Di colpo mi apparve un night immenso, quasi un’astronave di ghiaccio con gli oblò d’argento e le pareti di alluminio. Un mostro di Hollywood da cui potevano uscire Fred Astaire e Ginger Rogers e ballare tra le nuvole basse e tetre come angeli consolatori. Invece li accolse una voce stralunata, che strappava l’aria quasi fosse un cencio di nonna, una voce da animale disperso chissà perché in quella langa disperata. Nella tenda di acciaio, quasi al centro, c’era un juke-box che pareva calato da Las Vegas, tutto trapunto di stelle colorate, donnine nude, cappelli a cilindro avvolti nella stagnola. “Chi è che canta?”, chiesi a un ragazzo dai foruncoli che parevano lampadine rosse.
“Baby Gate. È uno schianto”.
“E chi è questa Baby Gate?”
“Una ragazza di Cremona che fa a cazzotti con il buonsenso, scalcia se la vuoi placare, malmena le note, le stritola. Urla la sua gioia di vivere, di essere altrove…”.
Già, Cremona. Subito mi apparvero le sue piazze svogliate, il malumore che sembra rimbalzare da muro a muro, i giardinetti dove un’armonica a bocca cerca di intenerire chi si siede a prendere il fresco e il profumo di torrone che, anche d’estate, riesce a intonacare gli alberi.
E non mi stupì che una città così quieta e lontana, piena di silenzi e di anime morte, avesse buttato fuori dalle mura quella voce sperticata.
“Ma è anche bellina?”
“Sarà molto bella perché ha bisogno di crescere, di allungarsi, di fare le mani sottili e il volto doloroso”;
“E se diventasse grassa?” Il ragazzo, che aveva il viso intelligente di chi annusa le cose molto prima del tempo, mi prese sottobraccio e mi portò fuori da quel baraccone. “Anche la Callas, anche la Stignani, anche la Tebaldi. Tutte grasse: e tutte grandi. Io vengo qui ogni tanto quando mi avvertono che c’è il disco di una cantante nuova. Ma io amo l’opera lirica, mi capisce? E le dico che questa Baby Gate ha dentro di sé la voglia inconscia di essere anche Leonora nel Trovatore”.
Rividi Mina, molti anni dopo, passare in galleria a Milano, tra un paio di tenori dalla voce smessa, afoni perfino nel bavero del cappotto. C’era anche il mio amico di Novara, che la fissò finché non scomparve in Piazza della Scala, dentro ad una nebbia tremolante e sparuta. Lui non mi riconobbe e sussurrò ad un altro: “Si chiamava Baby Gate, oggi è Mina. Guarda com’è magra: ha gambe così lunghe che le escono dalla gola. Vuoi mettere Milva, Patty Pravo, la Greco, la Vanoni? Loro cantano bene e basta. Mina riesce ad azzannare la musica con i suoi denti da bestia africana, senza farle mai male”.
Poi mi vide, tentò di ricordarsi di me, senza riuscirvi.
“Sarebbe una grande Leonora. Verdi, per me, bisogna morderlo piano e con strazio, in una piccola camera; così io lo godo. Un pianoforte e una donna che mi canti all’orecchio. Come delle conchiglie, sai? Così tutto diventa mare. Ecco, Mina ha questo potere. Basta che non si stanchi, che non si annoi, che si ricordi di amare questa voce lunga sulla quale cammina il rimpianto feroce di certi anni…”. Scomparve e nella grande galleria, appena mossa da qualche ombra infreddolita, calò all’improvviso – forse dalle persiane socchiuse di una finestra – “il cielo in una stanza”.