Liberal n. 50/1999
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Per mille anni ho attraversato quadranti, astrolabi, scaffali ed almanacchi.
E ora che ristagno nel concavo di questi abiti sintetici, ora che il mio petto si è impigliato nel mimetismo delle griffe, nella memoria rimangono i corsetti che hanno incastrato i tuoi brevi giorni.
Erano frutto delle mani di Andalusia, delle beghine delle Fiandre, intessuti dalle ciocche delle nuvole dell’Ossezia. E quando l’uragano della tua dedizione ti ha portato fino alle porte di quel monastero di Normandia, il tuo corsetto si è rimarginato in un lugubre saio. Lì, mentre la neve mulinava il suo gelo, hai rinchiuso il bel tempo delle tue scarpette da gavotta. E le aie dove stringevo la biacca ed il rossetto delle tue guance e dove i violini gonfiavano le gonne delle fanciulle in fiore, si sono folgorate nel chiostro dove ti attendevano melodie gementi ed eterne. Il profumo dei nasturzi ti gocciolava ancora sul collo mentre il tuo viso era ormai delimitato dal bianco tenebroso del tuo velo, che ti avrebbe nascosto per sempre agli sguardi morbidi della nera plebaglia.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Era inverno ed ho preso il treno per i brandelli di tempo delle mie epoche. Le malinconiche circonferenze dei secoli mi si sono accavallate nei seni del cervello. Ho sentito liquefarsi il grumo del sangue che, mentre si staccava dal balenio delle lame di Place Vendôme, mi trabordava sulle spiagge di Danimarca, dove vessilli neri minacciavano gli steccati dei feudatari in uniforme. Più e più volte fui costretto a tapparmi le orecchie per non spaccarmi i timpani quando il principe di Danimarca inveiva e lanciava collera contro il fato codardo e ingiusto.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Mi sono fermato nell’aria pesante di Praga, quando i carri armati urlavano ideologie di morte, e mentre mi risucchiavo all’indietro fino ai vecchi banconi della Sorbona, dove parlavo con Tommaso d’Aquino dell’essenza della verità, ho udito lo strepitio delle pianure fiamminghe e delle distese innevate di Russia.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Trifore gotiche mi hanno sbigottito l’anima, mentre la tua gonna plissettata mi civettava nel cuore. Terrapieni scozzesi si sono arrotati sul mio corpo, dopo aver accarezzato il portale barocco che ti scarabocchiava il viso.
Più leggero di un turacciolo ho danzato dai flutti dell’Acheronte alla collina dove mi aspettava Beatrice, e con la compagnia di Virgilio ho annegato i pensieri, mentre le mitragliatrici accasciavano Parigi in rivolta. Non potevo aspettare oltre e, travolto dall’ira, ho riposto le mie coccarde rivoluzionarie in quel bacile dove Dio stesso si aspergeva le dita quando ancora amava questa terra. L’obelisco egiziano mi ha celebrato e quando lo issarono nel ventre di Roma ho sentito il respiro giovane che Raffaello tratteneva di fronte alle pareti della Sistina che avevo tempestato del mio genio.
Avevo appena lasciato il cuore sotto il lucernario di Piazza della Signoria, dove avevano innalzato il patibolo, e le tue caviglie vibranti hanno zampillato nelle polle di odio che tracimavano dal travertino. E, appoggiato alla ringhiera del tram, ho visto Kant che osservava la luna. Puntava lo sguardo alla prima orma della suola di Armstrong che spumeggiava nell’ultima ora della notte, mentre i righi di musica di Wolfgang nutrivano il mio cordone ombelicale. E dopo aver dismesso le elucubrazioni sulla metafisica, tendevo l’orecchio verso le sconfinate pianure per udire il canto di quel pastore errante che interrogava la luna sulla sua malinconia.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Dopo aver abbandonato Milano al nemico, non avevo ancora equipaggiato il mio stupore, ma non potevo resistere al pensiero di averti consegnato per sempre a quel sorriso che odorava di ambiguo. Ti eri rivestita dei panni di Monna, ma non volevi rinunciare a trattenere l’ermellino al ritmo delle tue carezze.
L’ariana angoscia del dopo mi ha restituito ai laghi bavaresi e, mentre scalpitavo sui tavolacci delle birrerie di Monaco, mi sono aggrappato al rantolo furioso del vento di Auschwitz. Libero o prigioniero, gerarca o saltimbanco, non c’è orrore che non mi abbia illividito il cuore o a cui non abbia offerto l’assenso delle mie mani.
Il dorso si è piegato, lo scudiscio ha incontrato la mia nudità e la mia pena. E nel chiaro diluvio delle tragedie sono stato giudice, vittima, boia e carceriere.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Mentre sedevo in mezzo ai girasoli di Van Gogh, venivo avvolto all’indietro dal filo della memoria. Il bambino aveva già bruciato il filo dell’aquilone e, quando venne a chiedermi chi fossi, non sapevo dove avrei chinato la mia mente per dargli la risposta che si aspettava. Sapevo che la mia vita era stata succhiata nella vita di mia madre, ma forse lui non avrebbe compreso. Raccolsi le briciole della mia dignità perduta e gli dissi che ero solo un uomo uscito dal cuore del Paradiso terrestre. Che aspettava di tornare a casa.
Ho raggomitolato la cinghia delle vie e ho cercato di nuovo l’origine del mio andare. Le follie dei mandarini del potere e le speranze degli occhi della giovinezza mi hanno dilacerato nei quattro angoli dei punti cardinali. Dai ghiacciai finlandesi le mie mani pentadattiliche si sono ritmicamente allungate fino ad abbracciare i ghetti di Soweto. E cullato dall’oceano, ho soffiato i miei dormiveglia dalle stuoie di tè delle geishe d’Oriente fino ai sottobicchieri appoggiati alle pompe di benzina del far, far West.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Dopo aver abbandonato il mio corpo sul ventre della Moldava, ho pianto di materna nostalgia quando venivo cullato dal fruscio delle note di Smetana. Ho sofferto il peso del tempo nelle aule di processo inglesi, condividendo con gli schiavi neri l’insopportabile dolore di una libertà sempre cercata ma mai concessa; la stessa libertà ambita dai mille e più crociati che con me, raggrumati negli emblemi ecclesiastici, morivano in nome di Dio. Ho respirato i sussulti e le preghiere dei proletari e dei loro figli che nell’anno del Signore 1348 si raggomitolavano nelle viscere delle chiese, affinché la “Grande Peste” non contaminasse l’unica cosa ancora in loro potere: la speranza di vita.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Ed ora che mi abbandono al ricordo, mi accorgo di quanto il pensiero sia veloce ed abile. Rapido come quando mi aggiustai nella tuta di quel figlio del vento dalle pelle color terra, che correva beffandosi dei limiti invalicabili che la natura distribuisce agli uomini. E dopo queste imprese, dopo le vittorie che si estendevano da Berlino a Los Angeles, riposai nel letto delle vergini avvolte dal manto puerile dei loro tranquilli pensieri, mentre Klimt rapiva, con disarmante audacia, i loro sorrisi.
Ho scoperto che prima di nascere sono vissuto sempre in uomini saldi, signori di sé, come quell’ammiraglio genovese, che osò sfidare l’oceano. Le pupille dei galeoni spagnoli avevano già percorso il selciato del tempo, fino alle dune di Santo Domingo. E lì ho rivisto la tua tenerezza, chiusa in una blusetta di taffettà, aggrovigliata al dolore del mondo, come le contorsioni di un quadro di Bosch. L’isola era un regno di profumi e fu lì, in quel recinto di natura, che incontrai un ragazzo. Quando lo guardai negli occhi, scorsi quello che avrebbe visto; e io la vidi bene quell’altra isola e quel tesoro e quei pirati: tutto già pronto, tutto già lì dentro negli occhi di Stevenson, ancora prima che lui stesso se ne accorgesse, ancora prima che lui stesso ne scrivesse.
Ho vegliato in silenzio la notte di Caravaggio quando, insieme ai miei eccessi, mi addormentai sul ciglio di una strada. Ho trangugiato l’ennesimo incubo in cui mi sono visto protagonista: ero un esattore delle tasse intento a contare i soldi estorti, ero Pietro, Matteo e Cristo. Al mio risveglio, ho sbirciato tra i fondali di Cechov e i balletti di Tchaikovskij e, stregato dalle armonie, ho passato la vita a fermare il vortice delle ballerine sui pennelli e sulle tele.
Mi sono stupito quando ho soffiato la vita ad un burattino di legno o quando, in camice bianco, ho capito che potevo riprodurre all’infinito un essere vivente. Dalla mia inadeguatezza sono stato inebriato e, con la protervia dello schiavo, mi sono sentito Dio.
Ho visto uomini costruire palazzi tanto alti da toccare il cielo ed altri ancora indaffararsi in miniere per tastare con le mani il cuore pulsante della terra. Sono stato Bernini e Borromini, Freud e Jung, Händel e Bach, Hegel e Marx, Mozart e Salieri, Voltaire e Rousseau, e nelle lotte accese per prevalere sul mio avversario ho riversato tutta la foga emulativa nella ricerca di una verità impossibile.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Sono stato Picasso mentre ascoltavo Puccini e Puccini mentre guardavo Picasso. Mille volte ho intravisto il mio volto riflesso attraverso le vetrine del “Café de la Paix” e nell’ombra delle sale parigine gli sguardi avevano il sapore dell’uva. Fu allora che, mentre cercavo di ricomporre i tasselli del mio viso che baluginava negli specchi, mi accorsi di non essere più mio. Ero parte di quei merletti, corrispondevo a quel profumo di legno sospeso nella sala e non mi riconoscevo più nelle teorie appena uscite dalla mente di Sartre.
Non ripartirò per un nuovo viaggio.
Ogni notte è la mia liberazione, e adesso che cammino per le periferie di Mosca, nell’ora in cui il vento è più nudo, ritorno a Bergson e riscopro la verità di un tempo che è solo una dimensione mentale.
Sono stato cullato nello spavento dell’ignoto e il trascorrere del tempo, il suo imperfetto avanzare, il suo incerto incedere all’indietro vacilla da sempre sulla bilancia delle mie certezze. E ora io esigo una risposta.
Sono vissuto e non vivrò. Sono stato bersaglio di una sorte dura ma, grazie all’alto sentire del mio essere uomo, non sono ricaduto. Happy end, forse. Non dispiaccia alle cicatrici e ai lividi di cui si adorna il mio corpo rinsecchito. E quando questo convenzionale sipario del tempo verrà calato giù, in quel preciso istante la corrosione del mio respiro sarà definitivamente compiuta. Ho percorso il paese dei mille anni. E ora non aprirò gli occhi oltre il confine del tempo nuovo, o meglio, li terrò aperti verso l’interno di me, dove non c’è che sangue e amore, lotta e gioia. Non ripartirò per un nuovo viaggio.