Liberal n. 42/1999
Cara Mina,
un’altra bella batosta per la nostra storia recente. Un’altra zona d’ombra che si abbatte sul nostro Paese. C’era quasi da aspettarselo questo ennesimo scandalo delle spie italiane pagate dal KGB. Non riesco ad immaginare quale altra clamorosa rivelazione dovremo attenderci. Sono angosciata per il fatto che, quando dovrò spiegare a mio figlio di pochi anni in che Paese viviamo e che cosa sia la legalità, dovrò mentire per non fargli perdere subito la fiducia nelle istituzioni e nella politica. Da quello che scrivi mi pare che tu l’abbia già persa questa fiducia. Mi sbaglio?
Veronica F., Perugia
Era una notte buia e tempestosa. Infagottata in un pellicciotto preso in prestito da un commerciante di carne di Leningrado che si trovava nel mio stesso albergo, con qualche difficoltà stavo dirigendomi verso il teatro. Raggiunto, mezza congelata il camerino del Bolscioi, stavo preparandomi per l’ultimo concerto della tournée sovietica. Non volevo vedere nessuno e così avevo chiesto ai miei uomini di fare buona guardia, per evitare che si avvicinassero ammiratori o intrusi. Dopo Kiev, Leningrado e Minsk quella serata sarebbe stata l’ultima, prima di rientrare in Italia per fare, insieme ai miei, il Capodanno del 1962.
Ero molto stanca e neppure il colbacco che mi ero comprata aveva contribuito a risollevarmi gran che da un leggero stato febbrile, forse dovuto al freddo infernale che non riusciva ad essere sconfitto neppure dai timidi termosifoni del teatro. Mi tolsi il colbacco che non si adattava alla esagerata cotonatura dei miei capelli.
Fu proprio mentre ero impegnata a risistemarmi la pettinatura che vidi aprirsi la porta. Due grossi omoni dai modi decisi e dallo sguardo assente apparvero nello specchio del camerino e, senza troppi convenevoli, arrivarono al dunque. Volevano affidarmi un incarico riservatissimo, per il quale occorrevano personaggi insospettabili. Avevano pensato a me, dicevano, perché i miei trascorsi non erano mai stati connessi ad alcuna attività politica e perché le conoscenze che avevo in Italia erano quelle più adeguate allo scopo della missione. Non dissero i loro nomi, mi dissero solo di memorizzare un codice cifrato con il quale, nei contatti successivi, avrei saputo che si trattava di loro.
Il concerto scivolò via nella solita routine e al termine un’auto di rappresentanza mi prelevò per essere portata verso una destinazione ignota. Quando, finalmente, incontrai il capo dei servizi segreti sovietici, il piano mi venne svelato e, anche grazie ai dettagli, potei comprendere per quale enorme impresa ero stata scelta: attraverso di me doveva compiersi la destabilizzazione dell’Italia. Oltre al normale servizio di spionaggio, al mio ritorno in patria avrei dovuto contattare giornalisti, politici, imprenditori e magistrati. Tutto al fine di un mostruoso progetto di dissoluzione delle istituzioni democratiche italiane. Quando obiettai che non avevo mai avuto la vocazione di diventare Mata Hari, il misterioso capo del KGB mi rispose che proprio per quel motivo ero la persona più adatta a portare a termine il piano. Farfugliai, non ricordo più in che lingua, che non conoscevo una parola di russo. Mi disse che da quel momento avrei sempre avuto vicino, giorno e notte, qualcuno che ogni settimana avrebbe inviato a Mosca un rapporto dettagliato sulla nostra attività e il russo, questo qualcuno, lo parlava perfettamente e senza nessuna inflessione.
Il mio compito era molto delicato. Le mie tournées si trasformarono in un’intricatissima rete di contatti. Bassamente, approfittai di conoscenze e di legami per tessere un’enorme tela, nella quale veniva a crearsi il machiavellico disegno di una mano segreta che premeva bottoni rossi, disseminava bombe, collocava tritolo. Il crimine era diventato il mio vero mestiere. E quando qualche giornalista subodorò che il mio frenetico girovagare per l’Italia nascondeva delle trame oscure, fui costretta a metterlo a tacere per sempre. Sì.
Tutte le chiacchiere sul mio ritiro dalle scene sono state una grande bolla di sapone, perché nessuno ha mai compreso la vera natura di questa mia eclissi. L’eremo di Lugano è stato per anni la sede perfetta per la mia copertura.
Ecco: la grande e inutile caccia al tesoro, alla ricerca dei nomi delle spie, è finita. Le mille domande sull’identità dei collaboratori al soldo del KGB hanno trovato la loro definitiva risoluzione. Ma c’è di più. Non avrà più alcun senso cercare di colmare gli enormi buchi neri della storia italiana. Il muro del silenzio si sta, finalmente, sbriciolando. Ah, non ne potevo più. Mi sono liberata.
Ormai la “notitia criminis” è sotto gli occhi di tutti. Se volete la verità sull’Italia, lasciate perdere Hammamet. I cadaveri della recente storia italiana sono nel frigo di casa mia.
Ah, dimenticavo di rivelarvi l’identità di quel “qualcuno” che i russi mi avevano messo vicino. Era Topo Gigio. Sì.