Michele Serra – Una voce spericolata

Di Michele Serra – La Repubblica
24.03.2000

La “Tigre di Cremona” compie domani 60 anni. Da sontuosa show-woman della TV in bianco e nero alla sophisticated lady di mille canzoni Mina compie sessant’anni, e quasi non ci si crede. Sono veramente pochissimi, quanti ne bastano appena per fare una ragazza di lungo corso. Pochissimi per misurare la lunga strada della sua voce d’acciaio, che ha trafitto tute le epoche nostre coetanee, le tantissime epoche che abbiamo avuto la fortuna di vivere addossate le une alle altre, serrate come libri che soffocano in uno scaffale tropo corto. Progettato per meno parole di quante ne sono poi state pubblicate.
Dovrebbe averne almeno duecento di anni, la signora, per convincerci di essere davvero la stessa giovanotta scapigliata della zebra a pois, poi la sontuosa padrona di casa di Studio Uno, poi la virtuosa Sophisticated Lady di mille canzoni orchestrate in suo onore, infine la musa eccentrica che ha trafugato in Svizzera i suoi chili di talento.
È un compleanno allegro, per noi. (Spero anche per lei: auguri, augurissimi). Perché ci rivela quanto poco tempo, in fondo, abbiamo consumato per trascorrere una strada così faticosa. Dal nitido bianco e nero della old television al frantumato caleidoscopio della new, dalle prime avanguardie anti-melodiche ( e anti-ipocrite) al conformismo esiziale della trasgressione obbligata, dalle malizie estive della Bussola (e del Muretto, e Saint Tropez), alla perenne transumanza di massa nelle discoteche, dal Sorpasso al film (mai girato) che dovrebbe documentare la fine della corsa, dai primi Sessanta che si scrollavano di dosso gli ultimi calcinacci del dopoguerra (con il Boom, lo yè yè, le mille bolle blu) fino al Duemila post tutto. Insomma, da quando tutto poteva succedere, e infatti succedeva, fino a quando tutto ci sembra già successo, in travolgente sequenza.
Si è molto chiacchierato della sua ormai ventennale sparizione, rotta appena dall’invio di dischi-strenna, ghost-singer di sé stessa, e da qualche (di rado futile) articolo di giornale. Abbia o non abbia calcolato i modi, e soprattutto i tempi, resta il fatto che Mina s’è defilata in più o meno precisa coincidenza con l’esaurimento dell’onda d’urto del “moderno”, quando battezzammo giustamente “riflusso” l’avvitamento della società e del costume attorno al totem del benessere.
Nata cavalcando il primo Boom, quando strillava felice in minigonna, Mina snobbò il secondo. Troppo moderna per essere post-moderna. Moderna, mi pare, è l’aggettivo che meglio le si attaglia, anche se aria a datarne; inevitabilmente, anche la pur prodigiosa carriera artistica. L’apparizione di Mina fu, alla sua maniera italiana e dunque periferica, parallela a quella di Brigitte Bardot. Non così dirompente come icona erotica (anche se faceva la sua notevole figura, elegante e alta, lineamenti forti, a mezzo tra una Vitti meno buffa e una Mangano meno altera), erano però la voce, il repertorio e l’aplomb sulla scena a dare l’idea di una libertà femminile inedita e ingorda di vita.
Il suo dinamismo era impagabile, e misurabile, oggi, solo se riusciamo a rammentare davvero quanto timorato fosse, nell’Italia di quarant’anni fa, il bel porgere delle cantanti e delle ragazze in genere. Quando Mina apparve sulla scena, erano ancora vicini i tempi in cui Nila Pizzi vinceva a Sanremo e destava scandalo il fatto che Jula De Palma cantasse Tua, con remotissime suggestioni da amplesso (ma proprio remotissime).
Due persone molto diverse (Gorgio Gaber e Paolo Conte) mi parlarono anni fa con accenti molto simili della vitalità di Mina e della sua spiritosa intelligenza, Gaber, in particolare, della sua giocosità, che deliziava i suoi compagni di lavoro. I rotocalchi dell’epoca si occuparono di pedinare la ragazzaccia lungo il corso assai movimentato dei suoi amori. Almeno no, quello con Corrado Pani, biasimatissimo per avere, i due clandestini, addirittura generato un figlio.
Ma più ancora della liberalità privata, che peraltro impressionava soprattutto i baciapile (tanti, ma non abbastanza da frenare la smania dolcevitosa degli italiani) era la voce a rompere le righe. Potentissima, quasi fredda nel timbro metallico degli acuti e quasi maschile quando scendeva nei bassifondi del suono, la voce di Mina sfigurò letteralmente la tradizione canora. Semplicemente, non ci stava dentro. La forzava o addirittura la sfasciava.
Se per Modugno e Nel blu dipinto di blu venne scomodato, con piena ragione (anche filologica) Chagall, che aveva ispirato il paroliere Migliacci, non è certo un caso che i primi tre grandi successi della Mina urlatrice (primo nome d’arte, Baby Gate) siano tutti, sin dal titolo, carichi di suggestioni pittoriche: Tintarella di luna, Una zebra a pois e Mille bolle blu. Pop art o dadaismo che fosse, l’intenzione esplodeva poi in un canto così nuovo e spericolato da entusiasmare (o da lasciare allibiti). Come imbattersi inopinatamente in un astrattista in una mostra di paesaggi neoclassici.
A quell’indimenticabile avvio, che per chi scrive fu un affascinante choc infantile, seguirono lunghi anni di una maestosa carriera. Passata, almeno nelle canzoni, dalla minigonna agli abiti da sera, e a volte un poco ingabbiata in una sofisticatezza che sapeva un po’ troppo di night-club, la Mina esuberante e comunicativa degli esordi rimase però nelle nostre case come show-woman di lusso nei sabati sera televisivi. E ci è cara e ben presente perfino adesso che ci nega familiarità con il suo grande corpo femminile, che non possiamo nemmeno intuire perché la voce che ne scaturisce è ancora la stessa della Mina magra, gambuta e dalle stravaganti pettinature che abbiamo video-conosciuto.
E insomma, e infine: è bello davvero poterci ricordare di noi festeggiando i vivi e vegeti piuttosto che piangendo i morti. Dovremmo farlo più spesso. Mina, Morandi e Celentano (ce n’è per tutti i gusti) sono una confortante e solida trinità italiana. E neanche scampati o sopravvissuti, semplicemente contemporanei di mezzo secolo di cose nostre. Di vecchiaia, nemmeno a parlarne: al massimo è una perseverante maturità. Se non è più in groppa alla tempesta che ci ha svezzati, che oggi li vediamo viaggiare, è pur sempre insieme a noi che galleggiano e cantano.
C’è ancora tanto tempo. Crepino la glicemia e il colesterolo. L’unico diagramma che ci interessa è quello della voce che sale, sale, sale e non si ferma più. Lunga vita alla tigre di Cremona. E una torta grande come la sua fame di vita.

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