La Stampa n. 22/2000
Qualche volta è proprio bianco. È inutile inforcare occhiali, distenderlo per bene su una superficie perfettamente liscia, senza un refolo di vento che ne sciupi un angolo. Rimane bianco.
Può darsi che ci si chieda di chi sia la colpa. In alcuni giorni questo interrogativo rimane l’unico sussulto di interesse che il giornale propone. E dopo il momento di presunzione del titolone fresco di stampa, la rassegnazione della fine scontata di avvoltolare uova o foderare vecchi bauli portando nell’ingiallimento l’orgoglio di una grande firma, la paura di un inviato di guerra, la noia di un cialtrone.
Ci sono giorni in cui nessuna notizia ci tocca e tantomeno ci scalfisce. Nessuna altisonante proposta tipografica può ammaliarci. Abbiamo il nostro giornale personale in testa. Che non riguarda dispute internazionali né ribaltoni parlamentari. È costruito su argomenti fondamentali e imprescindibili, descritti con parole chiare, su programmi concernenti doveri che non ammettono commento. In quei giorni gli sforzi degli opinion leaders e degli anchor men sono vani. Invece di stupirci reclutano la nostra noia.
Amnistia o indulto per un mese e poi più nulla. Permessi d’entrata e lavoro per gli immigrati, per poi passare alle magniloquenti elucubrazioni sul fumo-sì-fumo-no o alle biotecnologie e ai cibi transgenici. Il parere di tutti, ma proprio tutti, i politici sul Gay Pride. Legge elettorale alla tedesca, alla portoghese, alla peruviana, per poi immergersi nelle promesse di De Mauro che chiede stipendi più cospicui agli insegnanti grazie agli introiti del gioco. La nuova legge elettorale, che non c’è, ringrazia, e i docenti anche.
Giornali e televisioni si lanciano a gara nelle loro danze sciamaniche intorno ai sacri roghi su cui vengono immolate le notizie. È la stessa logica da tritacarne che riduce tutto al solito copione per il teatrino mediatico e che ci sballotta dalle paure degli italiani per la criminalità, dalla suora che muore in ginocchio, ai capetti rosa, con borsa rosa, con scarpe rosa, con cappello rosa, con guanti rosa e ai gin alle undici del mattino della centenaria e spendacciona Regina Madre, passando attraverso il cotonato e coronato Emanuele Filiberto e le sue genuflessioni alla Repubblica.
Tutto inutile. Ogni mattina c’è, a otto colonne, un titolone solo. Quello che riguarda la tua vita, con i dolori, gli amori, le frasi non dette, i propositi, le disperazioni, le gioie, le piccole, lievi cose che ti permettono di continuare a vivere, la poesia che riesci a riconoscere nelle cose che ti accadono. Tutto il resto è contorno fugace, modificabile e discrezionale. Salvi solo, per esempio, uno come Adriano Sofri che non ha nessun dibattito da proporre e nessun commento da commentare e ci racconta solo semplici storie di carcerate che si fanno belle e si lucidano le scarpe perché potrebbe arrivare la notizia dell’indulto. Abbiamo bisogno di queste storie che, anche se non sembra, ci assomigliano molto perché non sono curiosità per risollevarci dalla noia, ma verità.
E poi le notizie false, quelle vere, quelle in buona fede, quelle macabre, quelle pericolose, ma soprattutto i commenti alle notizie, anch’essi troppo difformi per essere considerati affidabili, finiscono a macerare nell’acqua per fare cartapesta per burattini, giocattoli, carri per carnevale. E gli occhi dei bambini saranno spalancati, interessati e soddisfatti. Tutto sommato, non è poco.