Vanity Fair n. 5/2009

Il dolore di mio padre, il valore di un sorriso. Quindici anni e una prova che ti fa diventare grande in fretta.

Cara Mina, ho 28 anni. A 15 anni mi sono iscritto a ragioneria, mi sono diplomato e ho trovato lavoro come ragioniere nella ditta del nonno, dove avevo un ufficio tutto mio, la scrivania tutta mia, la poltrona tutta mia, un futuro pieno di stabilità, ma infelice fino al midollo. Non posso spiegare come si ci sentiva vecchi, spenti e disgustati ogni mattina. Un bel giorno ho deciso, dopo aver combattuto violentemente con me stesso, di abbandonare tutto per perseguire il mio sogno: l’arte. Sorvolando sulle reazioni dei parenti, mi sono iscritto all’Accademia di belle arti diventando «un’eterna promessa» e sono riuscito a laurearmi in tre anni e otto mesi col massimo dei voti. Mi illudevo di trovare un lavoro che amavo, creativo e che non mi facesse vivere in un ufficio con 3000 persone che mi ricordavano che dovevo essere felice per il bel posto. Ma da un anno e mezzo non lavoro, sto sfiorando la miseria e la disperazione, mi sto scoraggiando, mi sento incompleto, la volpe che non arriverà mai all’uva. Lasciamo perdere il non avere i soldi per il caffè e le scarpe bucate, ma la cosa che più mi ferisce è non potere avere i mezzi per fare arte. Il mio sogno si è spezzato. Non voglio diventare un artista famoso, ma vivere d’arte. Tutti i giorni mi ripeto di non arrendermi, ma mi sa proprio che mi sto arrendendo, non ho più le forze per andare avanti. Sono arrivato al capolinea. Scusa lo sfoga e spero che non scambierai il mio concetto per presunzione. Quello che mi ripetono tutti. Anto Z., Catania

Che cosa è l’arte? Un campo minato, le sabbie mobili, il paradiso, un orrido? Nessuno lo sa. Certamente l’arte è mistero. E l’unico fatto sicuro è che, nel nostro tempo taccagno, desolato e privo di mecenati, gli artisti sono costretti alla povertà. Per difendere il proprio pensiero libero, le proprie convinzioni estetiche, il proprio linguaggio espressivo anticonformista, l’artista è e deve essere estraneo alla convenzione della biologia e dell’igiene fatta di mangiare, dormire e altre simili “volgarità”. Infatti, per sopravvivere, l’artista non ha altra soluzione se non quella di lavorare. Lavorare come tutti gli altri esseri viventi. La prosaica occupazione non lo distoglierà mai dal fuoco che gli avvampa dentro. I “mezzi per fare arte” te li devi procurare, caro Anto, che siano tavolozze, colori pennelli e tele, oppure carta penna e calamaio, oppure microfono e registratore, scarpette e tutù, gessetti e marciapiedi, calce e mattoni. Gli spettatori, i critici,i compratori, i collezionisti non possono essere pretese del vero artista, ma semplicemente corollari aleatoriamente possibili per determinare successo o insuccesso. Fattori che con l’arte hanno pochissimo a che fare.

Quando la vita è appesa a un filo

Ho 15 anni e ti sto scrivendo mentre sono in treno con tre mie amiche. Veniamo dalla Sardegna e stiamo andando sulle Alpi. Loro vanno a sciare, io in ospedale a trovare mio padre ricoverato da sei mesi in neurochirurgia con un tumore raro al cervello. Ti scrivo anche per dar forza a tutti coloro che vivono ciò che ho vissuto io quest’estate. Sono stata tutto l’anno in viaggio per andare a trovare mio padre, e ogni due settimane tornavo in Sardegna per stare un po’ con mia nonna che se ne stava andando. Mio padre è stato per mesi con la vita appesa a un filo. Non camminava, non parlava per via della tracheostomia, non mangiava. Ricordo quanta felicità ho provato vedendolo uscire dal coma, sentire i suoi primi bisbigli, i suoi primi movimenti. Vedevo mio padre in un letto con cavetti da tutte le parti che quando mi vedeva entrare nella stanza mi sorrideva piano piano e cercava di alzare il braccio per prendermi la mano. Quando stava bene, questo era tutto scontato. Grazie al suo tumore, però, tutti abbiamo capito che nella vita non è tutto scontato, che basta poco per ritrovarsi in un letto d’ospedale e rischiare la vita, che bisogna apprezzare anche le più piccole cose come accontentarsi di un semplice sorriso. Perché si capisce quanto è importante possedere le cose solo quando le si perdono. Mio padre ora sta meglio, ma fino a tre mesi fa nessun medico dava speranze. Teresa

Purtroppo sei diventata grande in fretta. I tuoi quindici anni sembrano trenta, cinquanta, cento. Quella che è capitata a te e alla tua famiglia è una prova durissima. Può stroncare o far crescere nella direzione giusta. E tu sei una giovane pianta, ma, ormai, anche una adulta con sentimenti lucidi e robusti. Tuo padre deve essere molto fiero di te. Ti abbraccio, luminosa Teresa.

 

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4 Febbraio 2009

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